Del: 13 Dicembre 2018 Di: Redazione Commenti: 0

Lorenzo Rossi

Se c’è una persona la cui situazione, in queste settimane, non è affatto invidiata dalla maggior parte dei britannici è di sicuro Theresa May, leader del Tory Party e Primo Ministro inglese.
 Nonostante la May sia uscita vincitrice dalla mozione di sfiducia presentata ieri da 48 membri del partito conservatore — con 200 voti a suo sostegno e 117 a favore delle sue dimissioni — la premier ha ben poco da rasserenarsi. Ha infatti già promesso che non guiderà il partito alle prossime elezioni politiche del 2022.

Ma a cosa è dovuto tutto questo malumore nei confronti di Theresa May? La risposta si trova principalmente in una sola parola, che rappresenta un’incognita per il Regno Unito da ormai due anni: Brexit.


L’approvazione dell’accordo che doveva prevedere un’uscita più “soft” dall’UE, con un’agevolazione nei rapporti commerciali e una probabile soluzione alla rischiosa questione dell’Irlanda del Nord (il cosiddetto Backstop) è stato rinviato dalla stessa premier a data da destinarsi, dal momento che non era fiduciosa di ottenere l’approvazione in Parlamento.

May ha deciso, quindi, di cercare di rinegoziare l’accordo, per ottenere maggiori garanzie. Ciò ha causato enormi disagi alla Camera dei Comuni, che si è sollevata quasi all’unisono contro la premier.

Già nelle settimane scorse il governo era entrato in profonda crisi, con le dimissioni di numerosi ministri e sottosegretari, tra cui i ministri Davis e Johnson, che hanno condannato la linea troppo “soft” della premier, tendendo invece verso una hard Brexit, un no deal — posizione tra l’altro condivisa dall’ala dura del partito conservatore.

Cosa dicono, invece, i cittadini?

Secondo un sondaggio recente della BMG Research il 52% della popolazione opterebbe per il remain, se il referendum venisse rifatto.

Bruxelles rimane, al contrario, su posizioni irremovibili, che vedono il Regno Unito lasciare l’UE il 29 Marzo 2019. Una portavoce dell’UE ha dichiarato che l’accordo di divorzio sul tavolo sia «l’unico possibile, non rinegoziabile. La nostra posizione non cambia», ribadendo che tutti gli scenari possibili sono stati presi in considerazione.
 Su questo si sofferma pure Donald Tusk, presidente del Consiglio Europeo, che scrive in un tweet: «Non rinegozieremo l’accordo, incluso il backstop (sull’Irlanda), ma siamo pronti a discutere come facilitare la ratifica da parte del Regno Unito», aggiungendo in seguito che sono in corso i preparativi anche per un mancato accordo.

A poco è servita quindi la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha annunciato una svolta nell’applicazione dell’articolo 50:

Il Regno Unito è ancora libero di revocare unilateralmente la notifica della sua intenzione di ritirarsi dall’Unione Europea.

Pare, però, che non ci siano attualmente le condizioni per una revoca unilaterale, secondo alcuni portavoce dell’Unione.

La situazione si sta complicando a vista d’occhio. Un governo inglese debole che sembra collassare su se stesso, un’Unione irremovibile disposta ad aiutare la May fino ad un certo punto e numerose proteste anti-Brexit che si sono susseguite nei mesi scorsi hanno portato alla valutazione degli scenari più estremi, tra cui l’uscita con un no deal — una catastrofe, secondo certi esperti ed economisti — e un probabile secondo referendum, che però avrebbe bisogno della maggioranza in Parlamento per essere approvato.
 Tusk ha annunciato la convocazione per oggi di un vertice dei capi di Stato e di governo europei dedicato alla Brexit, per dare una mano alla premier inglese a superare la sua attuale posizione debole in Parlamento.
 Che si arrivi al compimento di qualche passo verso la fine della vicenda?

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