
Lucrezia Tavella
Lo scorso 20 Novembre Einaudi ha pubblicato una nuova edizione del catalogo della casa editrice nella collana I millenni. La quarta di copertina recita così: «Un elenco, certo, ma non sterile, come troppo banalmente si dice degli elenchi, bensì fecondo. Il catalogo è il futuro passato della casa editrice. È il luogo della memoria, ma una memoria […] come fonte di idee vive per immaginare senza paure un futuro possibile», e si prosegue con altre amenità sentenziose che omettiamo e che pure danno il senso della perdita nel corso dei secoli. E questa perdita è anche più gravosa e nostalgica se si paragona una collana storica come Scrittori tradotti da scrittori – di cui faceva parte la Trilingue curata da Valerio Magrelli e ormai abortita – con le ultime novità editoriali sul mercato, Istruzioni per diventare fascisti di Michela Murgia, tanto per dirne una.
Ad ogni modo, velo della polemica a parte, il senso della perdita per una collana come la Trilingue è tanto più forte in virtù del fatto che pubblicava, appunto, scrittori tradotti da scrittori, e si sa, l’arte della traduzione ha più di tutte a che fare con il tradere, ossia con un tradire che comporta fisiologicamente una qualche perdita. Ad esempio Ugo Foscolo, quando tradusse l’Iliade di Omero, i lirici greci o molte altre cose, si arrovellò per cercare una parola capace di restituire la ricchezza della lingua di partenza; Cesare Pavese, pur essendo traduttore dall’inglese e non dalle lingue morte, che pure gli erano molto familiari, ugualmente avvertì inadeguatezza nella lingua italiana.
Al di là di ogni ristrettezza, tradurre permette di varcare qualsiasi soglia temporale e quindi consente sia di restituire alla luce dei nostri giorni anche l’opera di un uomo vissuto nell’abisso dell’VIII secolo a.C., sia, al contrario, di ricacciare ancora più indietro nei tempi un romanzo scritto nell’Inghilterra dell’Ottocento.
Tradurre non significa solo cogliere gli esatti meccanismi grammaticali che regolano la frase, attività di per sé abbastanza sterile e liceale, ma significa anche mettere a disposizione il proprio bagaglio linguistico e culturale per la comprensione di un testo scritto da un’altra persona, all’interno di un sistema linguistico e culturale diverso dal nostro. Sono anni che s’insinua la necessità – nella fattispecie da parte di Maurizio Bettini – di far seguire alla versione di maturità classica «una serie di domande che vertano non solo sugli aspetti linguistici, ma anche su quelli culturali o letterari» dell’autore in questione. Eppure – verrebbe da replicare – lingua non significa cultura?
Al di là delle diatribe come questa e della reale o presunta necessità del latino e del greco, di cui in Italia si discute costantemente a scadenze alterne, una buona traduzione, in ogni caso, mira a salvaguardare l’originalità dell’originale senza che vada persa la cifra stilistica dell’autore né la banale comprensione del testo.
A questo proposito, appena dieci giorni fa, per Einaudi è stata pubblicata una nuova edizione dei Carmina di Catullo nella traduzione di Alessandro Fo, che per la stessa casa editrice ha tradotto anche l’Eneide, ed è con un confortevole sospiro di sollievo che i lettori, nella fattispecie gli studenti, possono mettere nel cassetto l’annosa edizione Bompiani a cura di Alfonso Traina nella traduzione di Enzo Mandruzzato. Se Catullo fu forse il primo in grado di forgiare uno stile nuovo e vario, mescolando diminutivi, preziosismi, cultismi e volgarità, Alessandro Fo riesce a restituire a modo proprio tutta la ricchezza della poesia delle nugae. C’è uno sforzo meticoloso degno di Carducci, per esempio, per trasporre la polimetria dei canti in una “metrica barbara”: così i più celebri versi del pentametro dattilico suonano con un ritmo inedito, lontano da qualsiasi rifacimento accademico: «Odio e amo. Com’è che ci riesca forse ti chiedi. / Lo ignoro. Ma sento che riesce, e ci sto crocifisso». Senza entrare troppo nei tecnicismi, il lepos della lingua di Catullo è volto in soluzioni in bilico fra la grazia spiritosa e la piacevole leggerezza delle nugae: i diminutivi, per esempio indulgono in tono tra il semiserio e il faceto a partire dal canto di apertura («A chi dono il libretto tutto grazia, / nuovo?») fino alle domande irriverenti nei confronti dell’amico Flavio («La tua delizia, ora, a Catullo / sveleresti, e tacere non potresti. / Ma chissà che patita sgualdrinella / ami, invece: e hai vergogna a confessarlo»).
Altrove poi la leggerezza è riequilibrata dalla verticalità della lingua poetica nei cosiddetti carmina docta.
D’altra parte, Catullo stesso vestì i panni del traduttore per la sua versione della Chioma di Berenice – originale greco di Callimaco – e sapeva forse meglio di tutti noi che il buon traduttore è quello in grado di exprimere e non soltanto di vertere un testo, cioè calibrare il rifacimento stilistico personale e la forma della lingua di partenza.
Se è vero che la storia è ciclica come ci hanno insegnato Tucidide e Vico, ai giorni nostri si dimostra di aver imparato molto poco nell’arte del tradurre, a partire dall’ultima traduzione Einaudi del romanzo Moby Dick. Ottavio Fatica, che di solito è un traduttore eccellente come per varie opere di Kipling, ci restituisce il capolavoro di Herman Melville in una forma anche più antica del secolo in cui venne scritto. La volontà pioneristica di rendere con adeguatezza la complessità della lingua di Melville, spesso incline a un suo proprio fraseggio, e il nobile tentativo di svecchiare la traduzione scadono in un linguaggio torto e ritorto, verboso, spesso così stentato che sembra mancare un respiro univoco sotteso a tutta la narrazione. Se si sfogliano le sole prime pagine va da sé sentirsi a dir poco inadeguati, sia a Melville che a Fatica: «with a philosophical flourish» è reso «con filosofico panache»; «I quietly take to the ship» con «io invece piglio e m’imbarco» a raffronto della versione di Pavese «io cheto cheto mi metto in mare»; l’uno tromboneggia: «Un cammino tortuoso serpe e s’addentra in selve remote e va a toccare la congerie dei contrafforti di montagne intrite del ceruleo dei pendii» e si arriva alla fine della frase quasi senza fiato, mentre l’altro è così chiaro e così nitido che sembra di leggere una delle sue poesie: «Lontano, in remote boscaglie, si sprofonda una strada serpeggiante, fino ai sovrastanti speroni di monti immersi nell’azzurro delle case».
Alla fine forse è proprio questo un altro punto cruciale nella traduzione, oltre alla salvaguardia dell’autenticità del testo: la capacità di uno scrittore – come Pavese o altri al suo posto – di scendere a compromessi con il proprio stile, la propria poetica e se stessi rispetto a un’altra persona. In questi casi la traduzione, nella fattispecie le cosiddette traduzioni d’autore, sono un arricchimento ineguagliabile per chi scrive e per chi legge, perché la letteratura è mimetica e, forse, in un tempo diverso dal nostro un Byron, uno Stendhal e un Foscolo, seduti a un tavolo, irridono l’Iliade del decrepito Vincenzo Monti aspettando il pranzo.