Illustrazione di Ludovica Marani
Se sei un abituale frequentatore di un supermercato e usi una tessera in cui accumuli punti per ottenere sconti sei nel Game. Se ti è capitato di raggiungere o attraversare una città mai vista prima e per non perderti hai usato Google Maps, se ti è accaduto di fare acquisti online o di cercare su Internet l’orario di apertura del locale in cui volevi fare aperitivo, se ti è successo almeno una volta di inserire i tuoi dati in un computer per iscriverti a qualcosa, di fare un colloquio di lavoro via Skype o una chiamata su Facetime fai parte del gioco. Se sei registrato a una newsletter o abbonato a un giornale, se hai mai cercato un’informazione su Wikipedia, commentato una foto su Facebook, pubblicato un post, una foto o una recensione pubblica, messo un like, scaricato musica da Spotify, guardato un film in streaming o su Youtube, se hai pagato, almeno una volta, con carta di credito, prenotato un libro di una biblioteca dal catalogo virtuale, usato sistemi di car sharing, comprato un biglietto online o inviato una mail, se guardi la televisione e ascolti la radio, se hai uno smartphone e messaggi su WhatsApp sei contemporaneamente un prodotto, un membro, un consumatore e un contribuente della rivoluzione digitale.
Il Game è questo: una rete di relazioni. Le stesse relazioni che esistevano prima, ma trasformate e riproposte in modalità diversa in quanto agevolate, promosse, intensificate, moltiplicate, semplificate, abbellite dai mezzi digitali.
Il Game è una mappa, un disegno, una situazione, un progetto, una strategia, un’esperienza, un modo di vivere il mondo, rispetto a prima, diversamente (in modo orizzontale e in espansione), virtualmente (in un oltremodo, in un cloud, in una nuvola, una bolla che non si tocca) e immediatamente (senza distanze di tempo — la comunicazione in tempo reale— di luogo — lo smartphone è vicino — o di relazione — non ci sono intermediari, si osserva e si partecipa in diretta, live, senza filtri).
In sostanza, il Game è il prodotto concreto di una modalità di pensare il mondo aperta, facile, piacevole e bella.
Quello che Baricco si propone di raggiungere, delineando la struttura di questo prodotto, dandogli un nome (The Game, appunto), una forma (una catena montuosa, qualcosa che emerge, seguendo più o meno una stessa direzione, da un terreno da tempo vibrante, magmatico, e naturalmente disposto proprio per emergere), e ripercorrendone la storia è un obiettivo duplice: in primo luogo spiegare che la rivoluzione digitale nasce da un bisogno intrinseco all’uomo, quasi come fosse geneticamente disposto a completare la sua evoluzione naturale promuovendo quella culturale e in secondo luogo abbattere l’idea apocalittica, frutto di una mentalità novecentesca (pre-rivoluzionaria), che le conseguenze della rivoluzione digitale — ovvero la rivoluzione mentale (il mondo si pensa in modo diverso), e la rivoluzione pratica (il mondo si vive in modo diverso) — siano dannose, pericolose e aberranti. La rivoluzione digitale semplicemente nasce da una serie di bisogni che tutti avevano da sempre avuto, ma a cui nessuno era riuscito a dare sfogo: si trattava di progettare delle strutture, dei canali, che potessero offrire servizi e consentire relazioni in un modo che fosse, per quanto possibile semplice, universale, gratis e bello. Un desiderio piuttosto ingenuo, quasi infantile, di rendere la vita più facile e più piacevole — addirittura, se vogliamo, divertente —, di fare della vita, appunto, un gioco.
Quello che i creatori della rivoluzione digitale hanno capito è stato, ad esempio, che per quanto viaggiare per strade sconosciute armati di cartine possa essere poetico, avventuroso e stimolante, avere un dispositivo tascabile, bello nel design e facile da maneggiare e costantemente aggiornato che ti consente di sapere ogni momento dove sei e cosa c’è intorno a te (non solo nel raggio di qualche centinaio di metri, ma in tutto il resto del mondo) è senz’altro più comodo; che scrivere una lettera a un amico, un compagno, o un familiare è senz’altro commovente, ma essere costretti a farlo per scrivere delle ordinarie comunicazioni di lavoro non lo è affatto, e quindi la posta elettronica poteva essere una geniale invenzione. Quello che Baricco si propone di fare, in sostanza, è far capire che non è necessario chiudersi in un isolamento elitario, e piuttosto snob, di condanna indiscriminata a tutto ciò che i nuovi media hanno portato, né pensare con afflato nostalgico che l’avvento del digitale condanni l’universo a una generalizzata, tragica e inevitabile crisi di senso. Semplicemente, alla base della rivoluzione digitale c’è la scelta di affidare la complessità fastidiosa, la fatica inutile, la scomodità della vita a device che vengono creati proprio per agevolarla.
La domanda che i pionieri della rivoluzione si sono posti è stata questa: se una determinata — e desiderata — relazione è ostacolata da impedimenti la cui rimozione mi costa del tempo e dello sforzo che potrei impiegare più volentieri per arricchire la mia esperienza diversamente e se è possibile evitare questi ostacoli creando un dispositivo comodo, bello e facile da usare che li annulla, perché non farlo? Una scelta non nata per ridurre, appiattire la vita, ma semplicemente nata dalla geniale idea di creare strumenti che semplifichino la vita — non sottovalutiamolo — di tutti. Una scelta nata non solo per rendere qualsiasi tipo di relazione più semplice da costruire, da mantenere e da capire: un linguaggio universale, disponibile ovunque, piacevole, non ingombrante (non esiste, esiste solo nell’oltremondo, nella mente, nell’etere, nella nuvola) in cui ci si muove come in un vero e proprio gioco. Ed è bene sottolineare una cosa: l’intensità con cui la vita viene vissuta non è in alcun modo correlata alla la rivoluzione digitale stessa: la presenza di device digitali come strumenti di comunicazione cambia il modo di vivere nel mondo (naturalmente, lo amplia) ma non contamina la sua qualità, la quale non può che essere correlata solo alla disposizione di chi agisce. Su questo Baricco insiste molto, così come insiste altrettanto frequentemente sull’indispensabilità di un’educazione allo strumento, sia prima che durante il suo utilizzo, affinché si mantenga quella vibrazione, quell’intensità che invece sembrano dar per ormai dispersa coloro che si ostinano a non accettare, e neanche a sforzarsi di capire, l’avvenuta rivoluzione. Quello che il Game ha fatto non è annullare ma trasformare le modalità di relazione in forme più semplici, appunto, non ridotte, ma più agevoli e più allargate, senza trascurare come l’attenzione alla bellezza, nel design sia esterno che interno dell’oggetto, possa accompagnare la sua funzionalità, se non addirittura favorirne l’utilizzo.
Il rischio di assuefazione, essendo il game attraente, è molto elevato, ma pensare il mondo come un gioco in cui chi partecipa, se lo fa con consapevolezza, non può che intensificare e arricchire di senso la sua esperienza, può essere una prospettiva ben adeguata, se non addirittura l’unica possibile, per salvarsi.
Quello che Baricco espone, in “The Game”, è a tutti gli effetti corretto, perfettamente coerente, ed esposto in modo ben struttrato, forse al limite da sfiorare il banale. Qualsiasi obiezione si tenti di fare al Game, sia come concetto in sè, sia per come è delineato da Baricco, svanisce di fronte alla domanda iniziale, da cui tutto è nato: se è possibile eliminare un ostacolo inutile — che sia di carattere temporale (niente più attese, tutto subito), spaziale (niente più distanze, tutto sotto gli occhi), o mediatico (niente più intermediari, caste, élite, tutti partecipano di tutto) — affidandoci a strumenti che lo eliminano, che sono agevoli e alla portata di tutti perché non farlo? Eppure, l’unica obiezione o, quanto meno, interrogativo che può sorgere è questo: in che misura si stabilisce l’utilità o l’inutilità dell’ostacolo? Come si capisce quando la distanza è annullata per comodità e quando per pigrizia, quando la mediazione è eliminata per semplicità e quando per arroganza?
Il Game è una struttura complessa, difficile da inquadrare, in cui inserirsi è semplice ma non lo è altrettanto iniziare a giocare con consapevolezza, proprio perché le regole del gioco sono tutt’altro che immediate, proprio perché le eccezioni — è dura ammetterlo— superano la regola, proprio perché la complessità del reale sfugge, il più delle volte, a qualsiasi tentativo di definizione.
Così come il Game, il libro di Baricco è qualcosa che in generale confonde: l’autore presenta il game in un simil-saggio che vuole essere esso stesso un gioco, un videogame cartaceo, non diviso in capitoli, ma in livelli, che ha una struttura complessa, intricata, labirintica, in cui ogni movimento, ogni procedere, aggiunge un pezzo di puzzle e si presenta come la conquista di un elemento in più, di un’arma, di una vita, per proseguire nel gioco, per darti i mezzi per poterti muovere più consapevolmente al suo interno. Come il Game, il libro di Baricco non dice nulla di nuovo, ma lo fa in modo diverso, innovativo: il registro linguistico fondamentalmente semplice, irriverente, che non esita a rivolgersi direttamente e ripetutamente al lettore e che a tratti risulta fastidioso (o come direbbe lui, seccante), così come l’estrema sintesi nei contenuti e l’impostazione — che segue una struttura prevalentemente schematica e grafica, e che non contempla né bibliografia, né note, né riferimenti — totalmente inadeguata ad un saggio, si possono accettare solo se si intende il libro in questa prospettiva. Forse, Baricco, si propone di inserire nel flusso della rivoluzione anche la narrativa e la saggistica, scegliendo l’abbandono delle loro forme canoniche, élitarie e poco consumabili dal Game, per adottarne di nuove, che con il mondo di prima non hanno niente a che fare: se si tratta di una presunzione ben riuscita o inadeguata spetterà al lettore deciderlo. Un unico avvertimento: prima abbandonate qualsiasi pregiudizio e poi pensateci su.