Una nuova stella sta sorgendo nel cielo della politica italiana. Si chiama Laura Boldrini e, con tutta sincerità, è diventata famosa essenzialmente per un motivo: essere stata, probabilmente a torto, la presidente della Camera dei deputati più odiata degli ultimi decenni.
Quando divenne presidente della Camera, nella primavera del 2013, in pochissimi la conoscevano davvero. Venne imposta dall’allora leader del Pd Pierluigi Bersani — insieme a Pietro Grasso al Senato — come candidata di sfondamento capace di guadagnare voti anche tra i Cinque stelle. Erano i tempi del corteggiamento di Bersani al Movimento di Grillo, nel tentativo di coinvolgerlo in un governo, prima che le elezioni per il Quirinale facessero esplodere il centro-sinistra e spianassero la strada alle larghe intese Pd-Pdl di Enrico Letta. Laura Boldrini ce la fece, ma senza l’appoggio dei grillini.
Il mandato della nuova presidente, in precedenza portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati per il Sud Europa, si contraddistinse fin dall’inizio per l’attenzione rivolta alle donne, alle minoranze, agli immigrati e, più in generale, alle vittime della violenza verbale che il web rigurgita ogni giorno. Vaste programme, avrebbe commentato il generale De Gaulle. Ma la Boldrini si tuffò nel suo compito con entusiasmo e generosità, promuovendo iniziative, convegni, incontri e spingendo leggi su leggi. Inflessibile, seguiva senza remore la strada che aveva deciso di tracciare: si era detto impegno per le minoranze? Impegno per le minoranze sarebbe stato. Nel frattempo nel Paese montava un’ondata di odio e rancore senza precedenti, in parte alimentata dalle opposizioni grillina e leghista.
Ben presto ci si rese conto di quanto Laura Boldrini fosse del tutto sconnessa dal sentimento dominante nel Paese.
Malsopportata persino a sinistra, la presidente di Montecitorio non perdeva occasione per inimicarsi qualcuno, redarguendo con precisione e alterigia questo o quel politico. Violenza sulle donne, omofobia e immigrazione divennero le questioni a lei più naturalmente associate. Il suo impegno aumentò d’intensità fino a trasfigurarne il ruolo istituzionale e a trasformarla nella paladina degli indifendibili, nel capro espiatorio su cui riversare gli errori e le disfunzioni di un’intera nazione.
Un punto di non ritorno si toccò quando nel gennaio del 2014, dopo l’inedita decisione di bloccare il dibattito in aula sul decreto Imu-Bankitalia per depotenziare l’ostruzionismo dei Cinque Stelle, Beppe Grillo pubblicò un post in cui chiedeva ai suoi seguaci: “Cosa fareste se foste in auto con la Boldrini?”. Ne seguì una valanga di insulti e offese di ogni genere. Qualche tempo dopo, dal palco di un comizio, il leader leghista Matteo Salvini la paragonò a una bambola gonfiabile.
Per cinque anni ci furono insulti, allusioni, offese.
Nel migliore dei casi sufficienza e condiscendenza per le sue battaglie un po’ utopistiche e un po’ strampalate, come quando adottò nel suo ufficio alla Camera due agnellini, per salvarli dalla macellazione.
Viene da chiedersi perché in questi anni la sua figura sia diventata il bersaglio preferito dei razzisti e degli odiatori d’Italia. Un bersaglio ideale, forse: donna, inflessibile, tenace. Come detto, è finita per fondersi con i concetti che esprimeva: dalle famose “risorse boldriniane” (gli immigrati allo sbando sulle strade italiane), al già citato “buonismo boldriniano”, che, nella sua imprecisione e assurdità lessicale, rappresenta l’unico, vero pensiero alternativo a Salvini e alle sue politiche.
Tra gli impegni istituzionali e il lento travaglio partitico da Sel, il suo partito di elezione, a Sinistra italiana e poi al gruppo misto, prima di ricandidarsi con Liberi e uguali, Laura Boldrini ha dimostrato una straordinaria caparbietà negli intenti e nelle azioni.
Non si è discostata di un solo centimetro da ciò che era e, in realtà, da ciò che gli altri si erano convinti che fosse.
L’effetto di questa combinazione è stato per lei salvifico: per tutti, anche per quelli che l’hanno insultata e la insultano, Laura Boldrini è diventata sinonimo di un certo modo di fare politica, di un certo impegno, perfino di quel certo buonismo di cui la si accusa. Buonista sì, ma riconoscibile. Su ogni argomento del dibattito politico si sa già, in anticipo, quale sarà la posizione della Boldrini. Questo fatto di posizionamento in politica è fondamentale, perché rende riconoscibili di fronte ai cittadini: diventi bersaglio dei tuoi avversari ma, nel contempo, dici agli elettori che ti sono più affini che tu ci sei. E li rappresenti. Non è solo politicamente alternativa a Salvini. Lo è, dal punto di vista comunicativo, in tutti i sensi: nello stile, nel linguaggio, nei temi.
In questo è straordinariamente simile proprio al suo arcinemico Salvini. Sono entrambi due leader polarizzanti, dalle posizioni note. Sono sempre dove ti aspetti che siano: e questo per i loro elettori basta.
Nella prevedibile contrapposizione con il ministro degli Interni ci sono due fatti abbastanza significativi da ricordare. Durante la campagna elettorale Lilli Gruber ospitò a Otto e mezzo un confronto tra i due, l’unico dell’intera campagna con protagonisti diretti due leader nazionali. In quel contesto, faccia a faccia, la Boldrini attaccò ripetutamente il segretario della Lega, fino a costringerlo, ad un certo punto, a scusarsi per la storia della bambola gonfiabile.
Ma la riscossa della Boldrini, che ha iniziato a guadagnare consensi tra i leader del centro-sinistra — tanto che si parla di un suo possibile ritorno nel Pd — si deve anche, e forse principalmente, a una nuova e più mirata strategia sui social network. Ha destato un certo scalpore a inizio aprile l’ennesima polemica con il vicepremier leghista che l’ha vista uscire vincitrice dalla contesa grazie a un hashtag efficace e all’impegno dei suoi sostenitori.
Su L’Espresso del 7 aprile Susanna Turco ha commentato questa vicenda, caricandola di un significato particolare, in un articolo dal titolo rivelatore, “Laura è diventata simpatica”:
Un successo comunicativo che sembra facile, in realtà è difficilissimo, e comunque a Boldrini non era riuscito mai fino ad ora, lungo tutti gli anni nei quali la presidente della Camera è stata il bersaglio preferito della destra, senza riuscire a conquistare simpatie di sorta nel residuo arco costituzionale.
Ancora più netta la conclusione:
Alla fine, tuttavia, lei si è rivelata più resistente di tutto. Sopravanzando anche il renzismo. Riuscisse mai a stabilire un feeling con gli elettori, saremmo a posto.
Questa capacità di resistenza non ispira solo rancore nei suoi confronti.
L’atteggiamento duro e spietato che le riservano da destra sembra il frutto, anche, della paura che possa essere qualcuno come lei, come la Boldrini, a batterli in futuro. E questa è una variabile di cui tenere conto.
Dunque, Laura Boldrini la vedi nelle piazze, dove montano le proteste dei giovani, delle donne, degli ambientalisti, degli avversari del Congresso di Verona. Lei c’è sempre. Ogni volta che Salvini l’attacca risponde precisa e prosegue nella costruzione di un’immagine forte e competitiva, mattoncino dopo mattoncino. Sta al centro della scena e non transige mai sulle sue posizioni, le riafferma, le rilancia. Diventa insomma l’immagine speculare, uguale e contraria, del leader più popolare del Paese, Matteo Salvini. Alla fine ne guadagna in consenso e in popolarità.
Che qualcosa a sinistra si muova è già una novità. Ma la vera domanda è un’altra.
Sta forse studiando da leader?
Si tratta di un tema importante, non eludibile. Perché per essere veramente competitivi sul mercato elettorale l’immagine alternativa è necessaria, ma non sufficiente. Le elezioni si vincono con le proposte, e in questo Laura Boldrini, e nel complesso l’intera sinistra, fatica a essere chiara. In un Paese come il nostro che da sempre manca di reali leadership femminili — solo Giorgia Meloni guida un partito di una qualche rilevanza — non sarebbe certo un’operazione facile, in particolare oggi che anche la sinistra sembra aver dimenticato le lotte femministe che l’hanno animata per tutto il Novecento. Dovrà scrollarsi di dosso questa diffidenza, insieme all’antipatia che ancora perdura per come ha gestito la Camera nella scorsa legislatura e insieme al fango di cui l’hanno lungamente ricoperta.
Ha il profilo istituzionale giusto — utile in tempi di ministri improvvisati — e ha sicuramente una potenzialità inclusiva, capace di unire la sinistra più radicale a quella più moderata. E pare incutere timore a Salvini: non è certo poco.