Del: 1 Aprile 2019 Di: Laura Colombi Commenti: 0

All’indomani della polemica tra il vicepremier Salvini e il primo cittadino di Milano, Giuseppe Sala, circa l’appello di Ramy, ”eroe” della tragedia sfiorata il 20 marzo sul pullman nelle vicinanze di San Donato milanese, si riaccende la discussione sul diritto alla cittadinanza nel nostro paese.

Il ragazzo, dietro sollecito dei genitori, ha infatti richiesto all’attuale governo di ottenere la cittadinanza italiana per motivi di merito, dal momento che grazie alla sua telefonata alle forze dell’ordine ha permesso un’azione di soccorso tempestiva e quindi la fuga dei passeggeri dal mezzo.

Ora, senza entrare nei meriti dell’accaduto, sorge spontanea una riflessione: cosa vuol dire e cosa implica essere cittadini italiani? Qual è la norma vigente sulla cittadinanza nel nostro paese?

Il sito del Ministero degli Interni definisce il termine cittadinanza come:

Il rapporto tra un individuo e lo Stato […] al quale l’ordinamento giuridico ricollega la pienezza dei diritti civili e politici.

Si tratta quindi di uno status giuridico circa i diritti – e gli impliciti doveri – riconosciuti dallo Stato, non di una questione culturale o d’identità nazionale, che non vengono nemmeno citate e che, possono semmai considerarsi una ricaduta, un effetto. Secondo la norma vigente in Italia la cittadinanza è ottenuta attraverso il principio dello iure sanguinis, “diritto di sangue”, ovvero di discendenza da almeno un genitore o avo già in possesso della stessa, o in via eccezionale per nascita da genitori ignoti o apolidi. Inoltre può essere richiesta dai cittadini stranieri residenti sul territorio italiano da almeno 10 anni, secondo alcune condizioni tra cui l’assenza di reati penali, condizione applicata anche ai rispettivi figli secondo naturalizzazione. Altri casi che consentono di avviare i procedimenti per la cittadinanza sono il matrimonio con un cittadino/a italiano/a e il compimento del diciottesimo anno d’età, per i figli di stranieri nati in Italia. I tempi d’attesa possono variare a seconda dello stato di provenienza, ad esempio bastano 5 anni per i cittadini europei.

Di conseguenza, tutti coloro che sono nati nel nostro paese da genitori stranieri i quali non possiedono la cittadinanza italiana vengono esclusi dalla stessa: i diritti loro riconosciuti sono quelli garantiti dallo Stato d’appartenenza, con differenze di non poco conto, come sappiamo.

L’aspetto più rilevante è forse quello legato all’automatico ottenimento della cittadinanza europea previsto dal Trattato di Maastricht del ‘92 che permette, tra l’altro, la libera circolazione nell’Unione. Qui entra in campo lo Ius soli, “diritto al suolo”, principio già introdotto nell’antico impero romano, secondo il quale chi è nato in un paese deve godere anche formalmente della cittadinanza nello stesso.

Gli stranieri nati in Italia potrebbero allora circolare nell’Unione europea e sarebbe quindi favorita l’emigrazione, eventualità che a molti non dovrebbe affatto dispiacere, considerati i molti oppositori all’immigrazione. Purtroppo, visto il clima di razzismo in costante crescita, l’approvazione dello Ius soli sarebbe molto impopolare, tanto da non essere stato portato a compimento nemmeno dalla precedente legislatura di sinistra; inoltre i paesi europei, e in particolare quelli più ricchi, sono spaventati dalla ricaduta di un fenomeno di immigrazione di tale portata, del resto già scongiurata con la costruzione di muri e la militarizzazione delle frontiere.

Insomma, tutto resta com’è: in politica, ancora una volta, sono più importanti gli equilibri nazionali e sovranazionali che i reali interessi delle persone.

Laura Colombi
Mi pongo domande e diffondo le mie idee attraverso la scrittura e la musica, che sono le mie passioni.