Salvini vende sogni, non solide realtà.
Ecco perché la narrazione leghista ha un successo così sconvolgente. Pesca a piene mani nel torbido della psiche, giù in fondo, là dove la ragione non respira e gli impulsi sono in balìa dell’emozione. Una politica emotiva, quella di Salvini. Ma proprio per questo fragile, più utile a governare i sondaggi che a guidare un Paese. E la cecità del leader felpato e del suo entourage è così ridicola che stupisce come la sinistra non sia ancora riuscita a rispondere a tono al capitano.
Salvini non è un politico, è una narratore.
La narrazione di Salvini si articola tutta attorno al senso di sicurezza. Senso, ma più probabilmente controsenso. La crescita delle tensioni nel paese sta stringendo come una morsa il senso civico di sacche di popolazione sempre più ampie. Le aggressioni di matrice razzista aumentano, mentre gli endorsement alla violenza allo stato brado del Ministro degli Interni non destano nemmeno più stupore.
L’assenza di un coordinamento unico per la raccolta ed elaborazione dei dati sulle aggressioni razziste in Italia è un grosso limite. Ma – ed è una sottostima –, secondo l’Osservatorio per la sicurezza degli atti discriminatori, solo nel 2017 i crimini d’odio sono passati dai 736 del 2016 ad almeno 1048. L’UNAR, Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali, dice che, fra le varie discriminazioni, l’82% delle segnalazioni è su base etnico-razziale.
Come in una farsa famigliare delle più scure, fra un bacione e l’altro germina l’odio.
Qualcuno si illude che prima o poi i vertici della Lega e il loro apparato esauriscano le idee. Il problema è che non si tratta propriamente di idee. Si può parlare, forse, più correttamente di una narrazione. Sfaldando a casaccio tutti i contributi e posizioni dell’ala sinistra o radicale dello spettro politico, l’ideologia leghista è tanto pragmatica quanto scarna. Se anche smettesse d’improvviso di fomentare l’odio per il migrante, la donna, o qualsiasi altra entità diversa da lui, Salvini potrebbe contare sulla rapidità con cui i nessi associativi stabiliti hanno attecchito nella popolazione. Il migrante ci invade e rovina l’Italia che lavora onestamente. Non è solo un’idea, è una storia. Funziona a meraviglia: c’è un protagonista, un antagonista, un conflitto, desiderio, azione. Sono millenni che ci innamoriamo di mondi costruiti con questa creta. Ecco perché milioni di dati grafici ed elaborazioni non faranno, da soli, la differenza.
Perché invece di affermare che i migranti che partono sono persone in salute, volenterose di trovare un lavoro onesto e vittime di sevizie di ogni genere, non ricordiamo che solo una visione progressista può davvero proteggere il paese?
Quando il PD ha provato a correre il rischio, ha pescato a piene mani nell’anima securitaria leghista promuovendo accordi con un Paese scellerato, e a nulla è servito un rapporto delle Nazioni Unite che certificava la presenza di evidenti violazioni dei diritti umani sulle coste libiche: Minniti è stata la soluzione, l’unica risposta rossa alla marea nero-pece salviniana.
In realtà, per rendere questo paese più sicuro non basteranno milioni di pallottole o armi nel cassetto della cucina. La sicurezza non protegge. Chiedetelo alle migliaia di vittime delle più recenti dittature latino-americane nate per mano militare. Vi risponderanno con un silenzio dolorosamente loquace, quello di sessantamila bocche piene di terra. Ridistribuire furbamente il monopolio della forza bruta alla popolazione civile sembra una perversa distribuzione dei pani e dei pesci evangelica, una comunione dell’odio. E sventolare vangeli bibbie e affini in favore di una telecamera non cancella, né ammorbidisce, l’incoerenza.
Un Paese che protegge i suoi cittadini è un Paese capace di creare legami. L’integrazione non è solo un’opzione progressista: è la valida alternativa all’esplosione sociale.
Allacciare esperienze fra di loro, le più diverse, costruire relazioni, questo tiene insieme le persone. Insomma, fare comunità. Il migrante è una persona giunta in Italia rischiando la vita e che, dopo un’odissea di sangue vuole contribuire alla crescita di questo Paese. Accogliere significa impreziosire questi vissuti, garantendo l’ascolto e la distribuzione di storie tremende e insieme profondamente educative.
Un cantastorie che ha ambizioni di tiranno, una creatura scappata a un racconto di Edgar Allan Poe. Si muove felpato, titilla l’animo identitario rivolgendosi a gruppi sempre meno inclusivi, dal respiro sempre più locale. Sapendo bene che chi divide spacca l’insieme più grande, tiene le fila, e perciò comanda. La sua narrativa di bassa lega (già) può essere sostituita. Rimpiazzare la storia dell’invasore – raccontando una, due, tre, migliaia, tra le odissee che sono (anzi, erano) quotidianamente il pane di chi lavora nei centri di accoglienza o nelle associazioni – è l’antidoto a quel vuoto pneumatico di senso civico che sta infiltrandosi nelle faglie più fragili del paese, ingrossando le divisioni ed ingrassando il bacino elettorale leghista.
Fino a che il migrante sarà solo una figura narrativa senza voce sarà manipolabile.
Ecco perché gli appelli a dare più voce alla persona migrante, anche nei TG, nei talk-show, sono l’unica matrice da cui può fiorire una prospettiva politica seria e alternativa.
In un paese pericolante, il resto è solo gioco di sponda a una narrazione rabbiosa e viscerale, quella leghista.
Articolo di Duccio Ferretti.