Affetta da fibrosi cistica — una grave malattia genetica e degenerativa — Claire Lucia Wineland è riuscita a crearsi una vita di cui essere fiera e diffondere il più possibile il suo messaggio di altruismo e speranza.
Risvegliatasi da un
coma all’età di tredici anni, quando i medici le avevano dato solo l’
1% di possibilità di sopravvivere, fu sommersa dalla gentilezza e dall’aiuto che il personale medico e gli amici avevano riservato alla sua famiglia. A colpirla maggiormente fu il realizzare che un supporto del genere non era universalmente fornito a tutti i pazienti che convivono con la fibrosi cistica. In primo luogo, infatti, si tratta di una malattia estremamente limitante dal punto di vista dell’isolamento, in quanto
il rischio di contaminazioni impedisce ai pazienti di entrare in contatto fra di loro e perfino i genitori non possono trattenersi nella stessa stanza assieme ad altri genitori con figli ugualmente malati. Questo fattore impedisce così un contatto fra pari che risulterebbe, invece, confortante. In più, le donazioni raccolte fino ad allora venivano totalmente devolute alla ricerca, tralasciando l’aiuto che sarebbe stato possibile fornire ai pazienti attualmente in cura e alle loro famiglie nel sostenere i trattamenti e le difficoltà quotidiane.
Accortasi dunque della necessità di risolvere tale mancanza, Claire fondò nel 2011 la Claire’s Place Foundation, un’organizzazione no-profit che opera su due fronti: da una parte fornisce supporto emotivo e psicologico ai pazienti e alle rispettive famiglie durante il decorso della malattia e, dall’altra, si fa carico delle spese mediche che alcuni non possono permettersi di sostenere. Il sito della Fondazione, inoltre, fornisce risorse testuali e multimediali per comprendere meglio la malattia e tenere aggiornati i pazienti sulle eventuali novità, mentre un Programma di supporto per le famiglie mette in contatto i genitori in modo che possano consultarsi e sostenersi a vicenda.
Tali iniziative sono valse a Claire numerosi riconoscimenti fra i quali il Gloria Barron Prize for Young Heroes, lo Small Nonprofit of the Year del Los Angeles Business Journal, seguiti dal Fox Teen Choice Awards e il World of Children Youth Award.
Parte dell’attenzione mediatica fu dovuta alla pubblicazione nel 2012 del libro autobiografico e best seller: Every Breath I Take, Surviving and Thriving with Cystic Fibrosis. La notorietà tuttavia giunse solo quando Claire venne notata e contattata degli organizzatori del TED talks, coi quali collaborò ripetutamente tanto da fare della public speaking il suo lavoro a tempo pieno. Nel 2014 aprì anche un canale YouTube (The Clarity Project, poi sostituito dal Claire Wineland) tramite il quale si rivolgeva sia ad altri pazienti sia a profani con l’obiettivo di abbattere lo stigma della malattia. Raccontando le proprie esperienze, infatti, cercò di descrivere cosa significasse vivere con la fibrosi cistica senza nasconderne gli aspetti peggiori, ma facendo leva sull’importanza di non considerare la malattia come un difetto che andasse sistemato, ma come una condizione che, pur debilitante, non doveva prendere il sopravvento e pertanto non doveva precludere il vivere esperienze normali come viaggiare, intrattenere relazioni sentimentali ed essere socialmente o politicamente attivi.
È proprio in quest’ottica che si può leggere l’importanza che la Claire’s Place Foundation ha avuto nella sua vita: due anni fa, parlando ad una conferenza TEDx, ricordò infatti di essersi sentita confusa da piccola, perché non conosceva persone come lei che potessero ispirarla, che fossero “interessanti” e non solo “malate”. Se un primo modello cui rivolgersi fu Stephen Hawking, il noto scienziato, poi -grazie alla Fondazione- Claire divenne lei stessa un punto di riferimento:
Ribadì poi il concetto in occasione di un’intervista della CNN:
Durante gli anni dell’adolescenza, sono stata capace di aggrapparmi alla Fondazione come promemoria del mio valore. […] É importante per i malati sentirsi utili: gli dà una motivazione per prendersi cura di sé stessi.
L’impegno di Claire infatti non si è mai spento, nel 2015 viene invitata a parlare pubblicamente durante il festival Life is beautiful, un segmento del quale rientrò nell’episodio a lei dedicato della serie My last days, un documentario che voleva descrivere la vita tramite le parole di coloro che l’affrontano sapendo di stare per morire. Davanti alle telecamere, la ragazza definì quella che era la profonda motivazione che la spingeva:
Voglio che le persone abbiano un momento di chiarezza, che realizzino di avere in mano le redini della propria felicità, del modo in cui la loro vita procede.
Un messaggio che indirizzò al pubblico indistintamente perché tutti, malati e non, affrontano sofferenze minori o maggiori, diverse le une dalle altre e spesso improvvise, ma
La qualità della propria vita […] è determinata da ciò che trai dalla tua esperienza di essere umano, ciò che tu ricavi dei momenti imbarazzanti e quelli dolorosi, ciò che fai e che restituisci da quella vita.
Ultimo progetto sul quale Claire si è concentrata è stato quello di consulente ufficiale per le riprese di A un metro da te (titolo originale Five Feet Apart), il film uscito in marzo e diretto dall’attore Justin Baldoni, col quale aveva stretto amicizia durante le riprese di My last days, di cui era stato regista. Il film racconta dell’amicizia e poi della storia d’amore tra due ragazzi affetti da fibrosi cistica e il ruolo di Claire consisteva nel garantire una rappresentazione veritiera delle condizioni di vita di un paziente affetto da questa malattia. Il suo apporto, tuttavia, è stato ancor più fondamentale dal momento che, come afferma lo stesso Baldoni, l’ispirazione per la storia gli venne proprio da Claire che gli aprì gli occhi sull’aspetto isolante della malattia e gli raccontò dell’esperienza vissuta con un’amica d’infanzia. Affette dalla stessa malattia, le due avevano infatti instaurato un rapporto a distanza entrando in contatto fisico solo tramite dei bastoni, rispettando rigidamente la regola stabilita dalla Cystic Fibrosis Foundation secondo cui la distanza minima tra due pazienti (per evitare contaminazioni) deve essere di almeno sei piedi, ovvero quasi due metri.
Tale distanza verrà invece ridotta dai due protagonisti per ripicca nei confronti di “quella malattia che li ha già privati di troppo”.
A un metro da te è stato dedicato alla memoria di Claire che, spentasi lo scorso settembre in seguito alle complicazioni di un doppio trapianto polmonare, non ha mai potuto vederlo compiuto. Tuttavia, l’attenzione che il film ha catalizzato, su questa malattia e su Claire stessa, ha sicuramente giovato alla causa per la quale si è battuta fino alla fine e il cui testimone è stato raccolto dalla sua famiglia che, tramite la Claire’s Place Foundation, mantiene vivo il ricordo della figlia proseguendo la sua altruistica e generosa missione.