
L’ISIS ha subito la sua definitiva sconfitta militare. Il 23 marzo l’ultima roccaforte Baghuz è stata conquistata, e ora non c’è nessun lembo di territorio su cui lo Stato Islamico può dichiarare la sua sovranità. Quel perverso progetto politico è fallito.
Il Califfato è morto e le truppe americane si preparano al ritiro dalla Siria lasciando soli gli alleati Curdi. Inizierà un processo di transizione il cui esito dipenderà, come sempre, dalle volontà politiche delle parti in causa. L’unica certezza è che al momento c’è bisogno di giustizia e chiarezza sulle responsabilità e sugli avvenimenti di una guerra lacerante.
Dal punto di vista del vecchio continente è necessario domandarsi perché 5-6 mila europei hanno risposto alla chiamata del califfato e, volontari, sono andati a combattere in Siria.
Uno dei modi attraverso cui sarà possibile dare una risposta a questo interrogativo, dipende da come gli Stati gestiranno il problema dei returnees. Si sta parlando dei combattenti sopravvissuti che vogliono tornare in Europa, al momento detenuti nelle carceri delle forze a maggioranza curda (SDF). Uno dei principali problemi concerne il loro ibrido status giuridico, in Siria rimangono prigionieri di guerra ma in Europa sarebbero sospetti criminali.
Nel maggio del 2018, l’European Parlamentary Research Service (ERPS) ha pubblicato uno studio sui possibili approcci degli Stati membri. Il dossier, nella prima parte, fornisce le informazioni riguardo le normative europee antiterrorismo, e poi si focalizza sulle strategie di risposta dei paesi con il maggior numero di foreign terrorist fighters: Belgio, Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Germania e Danimarca.
Innanzitutto, elenca le sfide legate al rimpatrio di questi soggetti:
[dropcap type=”square or circle”] 1 [/dropcap]Prima fra tutte è la questione della sicurezza pubblica, strettamente legata all’effetto blowback, ossia la possibilità di usufruire dell’addestramento ricevuto, non solo militare ma anche logistico, e dell’esperienza maturata per progettare futuri attacchi in Europa.
[dropcap type=”square or circle”] 2 [/dropcap]In secondo luogo, le difficoltà del rimpatrio riguardano non solo i singoli individui ma anche la loro famiglia – quindi si tratta non solo di uomini ma anche di donne e bambini –.
[dropcap type=”square or circle”] 3 [/dropcap]Infine, il problema coinvolge diversi tipi di politiche: la prevenzione della radicalizzazione, lo scambio di informazioni a livello europeo e la corretta risposta penale. Strategie di questo genere implicano lunghe e costose operazioni di sorveglianza generale condotte su larga scala.
Non sorprende che gli Stati non siano propensi al ritorno di questi soggetti. Legalmente il rientro è legato alla questione della cittadinanza, se non sei cittadino di uno Stato, quello Stato non ha necessariamente l’obbligo di accoglierti e processarti. In Belgio, Danimarca e Francia la revoca è possibile nel caso di possesso della doppia cittadinanza, ma risulta necessaria una definitiva condanna penale. Per rendere più spedito il procedimento, questa condizione può essere soddisfatta anche grazie a un processo in contumacia, ossia in assenza dell’imputato. Tuttalpiù, in Regno Unito e nei Paesi bassi non è necessario il giudizio penale, basta la doppia cittadinanza.
Un esempio di questo atteggiamento è il famoso caso di Shamina Begum, una ragazza inglese che lasciò nel 2015 la sua casa a Londra per aderire allo Stato Islamico. Ora, vuole tornare nel Regno Unito, ma il governo britannico l’ha impedito sulla base del fatto che non è possibile che ottenga un passaporto bangladese.
In aggiunta, ciò che rende ancora più ostico il rientro dei foreign terrorist fighters, è la difficoltà di provare oltre ogni ragionevole dubbio il coinvolgimento personale nei combattimenti.
Non tutti hanno avuto una parte attiva nella guerra, sebbene abbiano aderito all’ideologia del califfato. Per un procedimento penale non sono sufficienti presunzioni. È necessario trovare delle prove, ma farlo in uno Stato dilaniato dalla guerra civile è alquanto proibitivo. Gli Stati europei quindi, temporeggiano e rimangono restii al rimpatrio di questi soggetti.
Dal canto suo, Donald Trump è stato alquanto esplicito nel suggerire ai propri alleati la linea di comportamento. Il 17 febbraio ha twittato che i governi occidentali devono riprendersi e processare i circa ottocento terroristi islamici al contrario, e suona proprio come un ricatto, i curdi li libereranno.
È certamente anche una faccenda di opinione pubblica: se non si fanno entrare i migranti per timore di futuri attentati, figuriamoci la paura che il rimpatrio di questi soggetti possa suscitare.
Ciononostante, farli processare dai curdi o dagli iracheni non sembra la corretta via da perseguire. Per quanto riguarda i curdi, essi non sono un’entità internazionale riconosciuta, non hanno né lo statuto né la capacità di giudicare i prigionieri. D’altra parte, l’Iraq può processare solo per i crimini commessi sul proprio territorio, non per quelli commessi in Siria, ma soprattutto il suo sistema di giustizia non rispetta gli standard internazionali del giusto processo.
A riguardo, si è espresso Vincent Bregarth, avvocato della jihadista francese Mélina Boughedir, criticando la decisione di Macron di non aver adottato un programma per il ritorno degli jihadisti. Così facendo, la sua assistita rischia di essere condannata a morte, pena ormai in Francia abolita da tempo e che oltretutto è proibita da una serie di accordi internazionali di cui il paese è parte.
Non esiste un programma generale nemmeno per il rimpatrio dei bambini. La posizione ufficiale governo francese è quella di analizzare caso per caso e di decidere di conseguenza.
Questo fenomeno non ha particolarmente colpito l’Italia. Stando ai dati reperibili sono quattro gli italiani imprigionati nelle carceri Curde: Monsef Hamid Mkhayar, Samir Bougana, Meriem Rehaily e Sonia Khediri. Non è ancora arrivata nessuna presa di posizione ufficiale del governo, ma data la lieve entità si può ipotizzare una risoluzione simile a quella adottata dall’Irlanda: un rimpatrio senza troppo clamore per iniziare il procedimento penale e il programma di de-radicalizzazione. Certo, il governo italiano potrà sempre decidere di farne un uso strumentale e creare un caso mediatico per affermare la sua risolutezza di Stato sovranista.
Che cosa fare per le situazioni più drammatiche, come quelle della Francia e del Regno Unito i cui numeri parlano di rispettivamente 1910 e 850 returnees?
Quale potrebbe essere una soluzione di più ampio respiro?
Il primo pensiero va subito alla Corte Penale Internazionale. Per attivare la giurisdizione di questo organo è necessario che lo Stato in cui crimini si sono compiuti sia parte dello statuto della corte – la Siria non è parte –, oppure che il criminale in questione abbia la nazionalità di uno Stato parte. Ciò però non è sufficiente, perché anche nel caso in cui una di queste condizioni risulti soddisfatta – nella nostra ipotesi il criterio della nazionalità – c’è sempre il bisogno di passare attraverso una decisione politica. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha il potere di impedire eventuali investigazioni scomode che, se estese a tutti le parti in guerra, potrebbero, per esempio, portare all’incriminazione di Bashar al-Assad.
Si potrebbe ipotizzare la creazione di un tribunale internazionale ad hoc, come nei casi della Yugoslavia e del Ruanda. In questo modo tutti i Paesi coinvolti unirebbero i propri sforzi, finanziari e di intelligence, per perseguire e giudicare coloro che si sono macchiati di atrocità in Siria. Non sarebbe sicuramente un procedimento semplice, immediato ed economico. Le due esperienze passate ci dicono che sono necessari centinaia di milioni di dollari annui per circa vent’anni al fine di portare a termine un progetto di simile portata. Tuttavia, anche in questo caso sarebbe necessaria una risoluzione del CS e, quindi, un accordo politico dei cinque membri permanenti.
I governi europei sono di fronte a una sfida di difficile risoluzione. Nessuno è entusiasta all’idea di riportare dei terroristi nel proprio paese, e allo stesso tempo abbandonarli presenta dei rischi certi e imprevedibili.
La scelta sarebbe discutibile sia sul piano morale che su quello legale.