“DisarmiAMO Napoli”: il grido che si è fatto portavoce della manifestazione che, lo scorso 3 maggio, si è mossa tra le strade della città di Napoli per dire no alla camorra.
Una bambina di appena quattro anni. È Noemi. I suoi polmoni sono stati trapassati da una pallottola calibro 9 mentre era seduta al tavolino di un bar, all’ombra di una veranda in piazza Nazionale con sua nonna. Aspettava un gelato e invece al suo posto è arrivato un camorrista con la sua calibro 9. Non era lei l’obiettivo del killer, ma nonostante questo è rimasta ferita gravemente, a un soffio dalla morte. Colpevole come chiunque altro sconosciuto della città, come qualsiasi altro pedone sacrificabile per le regole del grande gioco della camorra.
Un grido e una bambina.
La manifestazione quel giorno è arrivata proprio in piazza Nazionale ed è qui, in questa piazza, che questa storia di ingiustizia e distruzione si è trasformata in una storia di speranza, di rinascita, grazie all’incontro con la vita di uno sconosciuto.
È la storia di Antonio, un napoletano di 23 anni, un napoletano, senza diritto del nome. Perché Antonio è sempre stato solo “Il figlio di”. Questo bastava per catalogarlo come figlio di una persona a cui portare “rispetto”, devozione, una persona da non infastidire, da non lasciare entrare nelle propria vita, una persona che per il semplice fatto di avere un padre non poteva essere se stesso liberamente.
“La mia infanzia è stata un’infanzia bugiarda, mia madre mi raccontava falsità su mio padre per nascondermi la verità”. Antonio ha scoperto chi fosse veramente suo padre dopo una partita a pallone con gli amici, dopo aver colpito un compagno facendolo sanguinare; invece di ricevere un insulto l’amico gli ha rivolto solo poche parole: “Solo perché so di chi sei figlio”. Allora informandosi scoprì la verità: “Ho associato il nome di mio padre a parole come boss, racket, estorsioni e camorra”.
Così, stanco della sua vita bugiarda, spinto da Noemi, dall’ennesima vittima innocente dell’ingiustizia del suo mondo, in mezzo a migliaia di manifestanti, si è fatto passare il megafono, d’impulso, e ha raccontato. E su quelle migliaia di teste: forti, stanche e disperate, la sua giovane voce è esplosa come una bomba, più forte di una calibro 9.
«Sono Antonio Piccirillo, figlio di Rosario Piccirillo, che ha fatto scelte sbagliate nella vita. È un camorrista. Dissociatevi, figli di queste persone. Perché la camorra è ignobile, ha sempre fatto schifo e non ha mai ripagato».
Poche parole ma con il potere di aver sconvolto l’Italia. Perché mai prima d’ora, nessun figlio di camorrista aveva avuto l’audacia di scendere in piazza per manifestare contro la propria famiglia, contro il proprio padre. In un attimo ha distrutto il mito di Gomorra, ha trasformato la bellezza della ricchezza sporca in un vuoto incolmabile, il fascino del potere in una prigione. Ma soprattutto ha mostrato a tutti i giovani privi del sacro diritto di scegliersi e crearsi il proprio futuro, come lui, un’alternativa: “Amate sempre i vostri padri, ma dissociatevi pubblicamente da quello che fanno”.
Perché, per Antonio, è stato suo padre ad essere stato le sue catene e la sua gabbia. È stato Rosario Piccirillo, conosciuto come “O Biondo”. La sua parabola criminale inizia negli anni Ottanta: traffico di stupefacenti, contrabbando di sigarette, riciclaggio di denaro, usura, estorsione. Antonio è, per questo, paradossalmente un ragazzo senza padre: “Non l’ho mai visto, per vent’anni è entrato e uscito dal carcere”.
Un ragazzo intrappolato in un paradossale vortice del destino: con un padre eppure allo stesso tempo invidioso di tutti coloro che un padre non l’avevano mai avuto, perché si ritrova, oggi, ad essere nient’altro che un figlio a cui è stata rubata la vita.
Così, stanco di non poter essere se stesso e di non poter diventare ciò che avrebbe voluto essere, ha manifestato contro la camorra, contro il suo stesso padre diventando involontariamente il padre lui stesso di un cambiamento, di migliaia di piccole azioni di speranza, per chi un padre non l’aveva mai avuto o per chi avrebbe preferito non averlo.
Sono in molti quelli che hanno visto nella sua azione disperata un esempio, una dichiarazione di vita e di speranza. Tra questi Roberto Di Bella, Presidente del Tribunale dei Minori di Reggio Calabria, che da anni rischia la vita nel tentativo di aprire un varco nel girone infernale di ndrangheta, camorra e mafia ed è riuscito ad offrire protezione alle mogli e ai figli di boss che si sono rivolti a lui per ‘salvare’ i loro figli e loro stesse da quel contesto mafioso.
“Un messaggio bellissimo”, dichiara, “che può far breccia nei cuori e nelle menti di molti ragazzi figli di boss e mafiosi che sono costretti a vivere in situazioni difficilissime, che pregiudicano il loro presente e il loro futuro. Una testimonianza importantissima che può aprire nuove strade per i figli dei mafiosi”.
Così le parole di Antonio diventano una via di fuga dalla morte, dietro ogni angolo, e da un mondo, in cui la vita è senza via d’uscita. È una presa di coscienza della consapevolezza di essere immersi nella crudeltà, nella spietata freddezza e lucidità di atti indifferenti. È un grido di scossa verso tutti coloro che si sentono impotenti. Perché in certi momenti tacere è essere colpevoli e parlare diventa un dovere, l’unico modo per sentirsi umani e non pedine, animali, strumenti privi di volontà.
Così, Antonio, è riuscito ad imprimere una svolta a questa guerra silenziosa e interminabile che ogni giorno gioca le sue battaglie tra le strade della città. Un passo verso la bellezza della libertà. Perché se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà prima o poi come in un incubo e con paura morirà un po’ ogni giorno. E con lei moriranno le calibro 9 per lasciare il posto a freschi gelati.