L’arte non è altro che percezione organizzata.
Così Lichtenstein definiva il proprio lavoro artistico, tutto volto a creare stimoli potenti cui la percezione visiva dello spettatore reagisca nell’immediato. E a vedere le sue creazioni in sequenza, una accanto all’altra — alla mostra organizzata dal Mudec e curata da Gianni Mercurio — la prima impressione che se ne ha è quella di essere colpiti da un’esplosione di colori e forme, e dimensioni: la mostra, visitabile fino all’8 settembre, ospita infatti circa 100 opere tra prints, sculture e arazzi provenienti da prestigiosi musei e collezioni europee ed americane. Il materiale è ripartito in base alle principali tematiche oggetto delle opere: dagli indiani d’America agli oggetti, dagli interni delle abitazioni ai fumetti, e alla figura femminile.
Un artista eclettico, Lichtenstein, che non esitava a prendere a piene braccia da diverse tradizioni, spesso cercando di metterle in relazione: cercò soprattutto di porre in un unicuum indivisibile il Modernismo europeo con le origini storiche e culturali americane, di creare, insomma, un ponte tra i pellerossa e Picasso o Klee.
Il suo stile favolistico e ironico abbraccia tutta la realtà, e la raffigura attraverso due concetti fondamentali: l’oggetto, che diventa simbolo di “una certa anti-sensibilità che pervade la nostra società”, e il colore, che diventa centrale e assume un valore indipendente dal soggetto sul quale è sparso.
E difatti il contenuto dell’opera sembra non avere alcuna importanza: conta soltanto il potere dell’immagine sull’occhio che la osserva per la prima volta, e per un istante soltanto. Non a caso Lichtenstein passava ore camminando per le corsie dei supermercati, studiando l’aspetto delle confezioni e delle etichette, osservando quali colori e quali forme erano state scelte per far sì che in una frazione di secondo il cliente si convincesse a comprare proprio quel prodotto. Curioso a tal proposito il confronto con Banksy, ospite della precedente mostra al Mudec, per il quale il contenuto è l’unico vero portatore di significato, e passino in secondo piano l’estetica dell’opera o addirittura la fisionomia dell’artista.
Anche le tecniche sono innovative: litografia, acqua tinta e incisione, che aveva sperimentato a scuola, accompagnano un codice espressivo sostanzialmente geometrico, fatto di linee, puntini e colori piatti.
Lo si può definire un artista pop? Certamente, ma in un modo totalmente diverso rispetto a Warhol: spiega Mercurio che, se la celebrità del nome di Wharol non sempre viene immediatamente associata alle sue opere, lo stile di Lichtenstein, nonostante il suo nome non sia universalmente noto, è inconfondibile.
L’uso delle stampe è centrale nella sua poetica: la moltiplicazione dell’opera d’arte, l’immagine riprodotta in maniera seriale è l’unica arte possibile e davvero significativa in un mondo dominato dal consumismo, nel quale ogni giorno ci vengono proposti illimitati bisogni che possono essere soddisfatti da illimitati prodotti.
Roy Lichtenstein è quindi uno dei più perspicaci interpreti della realtà post-moderna, nella quale predomina un sistema culturale che, secondo Jean Baudrillard, “sostituisce a un ordine sociale di valori e classificazioni un mondo contingente di bisogni e piaceri”.