113 morti, 723 feriti, 650 arresti, 48 donne stuprate, 6 uomini stuprati, 1000 dispersi: sono i numeri che danno una vaga idea del massacro che sta avvenendo in questo momento nel Sudan, che però sta ricevendo copertura zero da parte dei media occidentali. I social network si sono colorati di blu, seguendo l’hashtag #BlueForSudan, riprendendo il colore preferito di Mattar, l’uomo che ha perso la vita il giorno del suo compleanno facendo da scudo a due donne dai proiettili delle Rapid Support Forces (RSF), un gruppo paramilitare. Sempre le RSF, nei successivi scontri, hanno iniziato a buttare i cadaveri dei civili nel Nilo, il cui colore aggiunge ancora più simbolismo alla scelta del blu, che ora rappresenta la speranza per la rivoluzione. Eppure, nessuno ne parla.
Nel dicembre 2018, i sudanesi hanno iniziato una rivoluzione pacifica contro la tirannia di Omar al-Bashir, salito al potere quasi trent’anni prima con un colpo di stato militare: le manifestazioni pacifiche si sono scontrate con una violentissima repressione da parte delle forze dell’ordine, portando così a scontri in cui hanno perso la vita diversi civili.
Nel febbraio del nuovo anno, al-Bashir ha dichiarato lo stato di emergenza, mettendo fuori legge tutti i raduni non autorizzati – in sostanza, rendendo illegali le manifestazioni. I raduni pacifici però non si sono fermati, come non si è fermata la parallela repressione armata.
Il 6 aprile, i cittadini hanno realizzato il più grande sit-in della storia sudanese davanti ai quartieri generali delle forze armate: ancora una volta, il governo ha tentato di reprimere la manifestazione con la forza. L’11 aprile, l’esercito è entrato in gioco arrestando al-Bashir, dando così vita a un governo di transizione, retto dal generale Awad ibn Ouf, già ministro della Difesa e vice presidente. Questi ha dichiarato di voler governare per un periodo di due anni, aspettando così le regolari elezioni e andando contro le richieste della popolazione, che cerca di evitare una situazione simile a quella che, trent’anni prima, aveva portato al-Bashir al governo.
Il 12 aprile, Ouf rassegna le dimissioni: il potere passa nelle mani di Abdelfattah Burhan, ispettore generale della Sudanese Armed Forced (SAF), accompagnato da Mohammed Hamdan Dagalo come vicepresidente, comandante delle RSF. Inoltre, la costituzione, che era stata sospesa da Ouf, continua a non essere re-instaurata.
Il 15 aprile, l’Unione Africana ha dato quindici giorni di tempo al Sudan per instaurare un governo civile, ma questa richiesta è stata successivamente estesa a tre mesi. Si sono susseguite una serie di dimissioni di più persone all’interno del consiglio transitorio, e questo ha portato i cittadini, il 3 giugno, a organizzare un nuovo sit-in a Khartoum, la capitale, che è stato nuovamente attaccato dall’esercito. Questa giornata coincideva con l’Id al-fitr, il secondo giorno di festività più importante della cultura musulmana, in quanto segna la fine del digiuno per il ramadan. Ma la popolazione sudanese si è trovata a fare i conti con un massacro: i civili sono stati gettati vivi nel Nilo, arsi vivi, stuprati.
L’esercito ha tagliato Internet dal paese, lasciando il Sudan in completo blackout e rendendo estremamente difficile comunicare a livello internazionale per portare l’attenzione del mondo su ciò che sta accadendo.
Diversi hanno manifestato la loro vicinanza al Sudan e hanno spinto affinché i media occidentali si occupassero di coprire gli eventi in atto: tra gli altri, anche la popstar Rihanna, l’attore George Clooney e la beauty-blogger Shahd Khidir.
Sono state create raccolte gofundme con base a Manchester (UK), e su Facebook, per raccogliere cibo, beni di prima necessità e assistenza sanitaria nel Paese. A queste, si affianca una petizione su change.org che chiede all’ONU di investigare sulle violazioni dei diritti umani perpetrate durante il massacro del 3 giugno.
L’appello dei sudanesi è il tentativo di richiamare l’attenzione delle piattaforme social e di ogni tipo di media del proprio paese per portare copertura agli eventi. La situazione può essere monitorata su Twitter, seguendo gli hashtag #IAmTheSudanRevolution, #SudanUprising, #SudanMassacre, #SudanRevolts, #PrayforSudan, #Sudan_Internet_Blackout, #SudanWillPrevail.