La più sublime, la più nobile tra le fisiche scienze ella è senza dubbio l’astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di sé medesimo, e giunge a capire la causa dei fenomeni più straordinari.
Astronomia e Leopardi, due nomi che non vengono spesso associati, o almeno non quanto dovrebbero. Eppure, con questo vero e proprio inno alla scienza del cielo, si può subito intuire la grande ammirazione ed il profondo interesse di Giacomo Leopardi per l’astronomia. Inizia molto giovane ad interessarsi ad essa, infatti, due anni dopo l’osservazione della cometa del 1811, scrive a soli quindici anni “La storia dell’astronomia”, in cui coglie la ragionevolezza del modello eliocentrico, soffermandosi proprio su quanto il raggio della Terra sia un centesimo del raggio del Sole.
È interessante leggere l’unità di visione, l’indistinguibilità del fascino che per Leopardi ha la dimensione scientifica dalla sua poesia.
Troviamo, per esempio nella “La Ginestra”, proprio il riflesso della sua consapevolezza scientifica riguardo la sproporzione della Terra rispetto al Sole; Terra che a noi uomini invece appare immensa. Questo viene reso in versi:
E poi che gli occhi a quelle luci appunto, / Ch’a lor sembrano un punto, / sono immense, in guisa / Che un punto a petto a lor son terra e mare / Veracemente; a cui / L’uomo non pur, ma questo / Globo ove l’uomo è nulla, / Sconosciuto è del tutto; e quando miro / Quegli ancor più senz’alcun fin remoti / Nodi quasi di stelle, / Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo / E non la terra sol, ma tutte in uno, / Del numero infinite e della mole, / Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle / O sono ignote, o così paion come / Essi alla terra, un punto / Di luce nebulosa; al pensier mio
In quest’opera notiamo come Leopardi abbia una consapevolezza scientifica importante, ma, allo stesso tempo, descriva questa immensità in modo poetico. Tutto è molto più piccolo rispetto alla curiosità scientifica e la vastità dell’universo, che segna la sua immaginazione e risuona dentro di lui, è uguale al nostro desiderio di conoscenza che non può essere soddisfatto. L’uomo è nulla rispetto alla Terra, la Terra è un punto rispetto al Sole. Questa catena di sproporzioni fa avvertire la nostra piccolezza in termini astronomici, ma la nostra profondità umana in termini poetici.
Impressionante l’immagine del 2012 in cui Venere, allineata sullo stesso asse della Terra e del Sole, si specchia, minuscola, sulla superficie della stella. Parallelamente agli studi leopardiani, l’astronomo inglese Herschel, grazie alle nuove tecnologie dei suoi telescopi, per primo decise di ricostruire il modo in cui le stelle sono disposte nell’universo.
Scandagliando per anni il cielo, si accorse che vi erano altri peculiari oggetti dall’apparenza nebulosa, piccole nuvolette di luce che egli nominò nebulae. Che cosa fossero rimarrà per molti anni una domanda senza risposta, ma già Herschel intuì che ognuna di esse potesse essere un sistema stellato. Grazie a Newton ed a Herschel, si capì che le stelle non sono legate ad una grande sfera che ruota intorno alla Terra, ma sono distribuite in un universo aperto.
Sia Leopardi che lo stesso Newton colsero però in questo nuovo modello qualcosa di poco convincente, una lacuna filosofica: «Che un corpo possa agire su un altro a distanza attraverso il vuoto, senza la mediazione di null’altro, è una tale assurdità che io credo che nessun uomo […] possa mai credere nel metodo».
Solo la relatività generale di Einstein farà poi un passo avanti nel cogliere la curvatura dello spazio come effetto della massa che produce l’azione gravitazionale.
Cosa possiamo dire oggi? Ciò che sappiamo è che le nebulose sono effettivamente degli altri sistemi stellati. Una di queste, m31 o Andromeda, visibile anche ad occhio nudo, è una galassia esattamente come quella in cui siamo immersi, formata da miliardi di stelle. Dista dalla Terra 2,500 milioni di anni luce; questo significa che l’immagine che noi vediamo corrisponde a quella di 2,500 milioni di anni fa. L’informazione arriva, quindi, con un ritardo: più si osserva lontano nello spazio, più ciò che si vede risale ad un tempo remoto.
È possibile quindi osservare l’universo fino alla sua formazione, capendo che è in continua espansione. Fino a dove si estende, però? La vastità è infinita o finita? Per rispondere a questa domanda bisogna precisare che, nel campo relativistico, lo spazio potrebbe non essere piatto, come nel modello euclideo, ma curvo.
Disponiamo di una serie di misure, i parametri di Planck, che ci permettono di capire se la curvatura dello spazio sia positiva o negativa, informazione a cui corrisponderebbe un universo rispettivamente finito o infinito. Nonostante a questo parametro corrisponda un numero positivo — 0,007 — l’errore ad esso associato èmaggiore di questa cifra. Siamo quindi ancora in bilico tra il finito e l’infinito e continuiamo a non avere risposta ad una domanda che ci attanaglia da più di 200 anni.
Articolo di Sara Suffia