La generazione Z meneghina non può non ricordarsi di Abercrombie & Fitch e delle sue chilometriche code fuori dal palazzo di Gio Ponti, in Corso Matteotti.
Nel 2009, anno della sua inaugurazione, il marchio sembrò inarrestabile; poi il crollo.
Infatti, 11 anni dopo, lo store di Milano chiuderà, a causa del devastante calo dei profitti del marchio (lo scorso marzo sono stati chiusi 60 store negli Stati Uniti, con un crollo del 13% e una continua diminuzione delle vendite che procede imperterrita dal 2012).
Una parabola discendente di questo tipo è comprensibile se analizzata su diversi aspetti, complici del crollo di vendite del marchio sia da parte dei nuovi sia dei vecchi clienti.
Sin dall’ingresso nel mondo della moda, Abercrombie ha puntato su una clientela estremamente ristretta di acquirenti, costituita da adolescenti della classe medio-borghese americana, con restrizioni sulle taglie che scatenarono non poche polemiche contro il CEO del brand, Mike Jeffries, accusato di favorire esclusivamente un solo standard estetico (oltre al polverone sollevato contro i rigidissimi e velatamente razzisti parametri per poter lavorare come commesso-modello).
Il cerchio, tragicamente, si restringe ulteriormente a causa della continua e imperterrita fedeltà verso il classico design del brand, ossia il logo dell’alce e la scritta “Abercrombie & Fitch”, impedendo di fatto un’innovazione creativa sul lato estetico; ciò non è una cosa da poco, visto che la casa di moda Gucci, per esempio, tramite la bizzarra e accattivante rivoluzione creativa condotta da Alessandro Michele, ha visto impennare il suo fatturato.
Un elemento che va a braccetto con la campagna promozionale sui social, eccessivamente standarizzata su classiche foto dei modelli in contesti e paesaggi puramente americani, prive di quel tocco di creatività che possa attrarre sia influencer sia futuri acquirenti a investire sul brand.
Per carità, a tutti piacciono gli skyline innevati e le modelle bionde che impugnano bicchieri di Starbucks. Tuttavia, non sempre ciò è fonte di hype eterno (alla fine, fortunatamente, si è deciso di introdurre anche modelle plus size, accanto a quei bronzi di Riace del Pacifico).
Altro tasto dolente è sicuramente il prezzo dei prodotti: troppo elevato se, considerata la concorrenza, non si è in grado di offrire qualcosa di accattivante e inimitabile alla clientela.
Circa 70€ per una felpa monocolore possono apparire eccessivi, specialmente ora che il marchio ha perso il suo appeal verso i giovani, che si dirigono su concorrenti i cui prezzi sono decisamente più modesti (Alcott, H&M, …).
Le scrivanie e i portafoto sono ormai spogli delle polaroid sfocate ritraenti i commessi dell’ingresso.
“Modello presso Abercrombie” è stato il biglietto da visita di molteplici profili Facebook, gestiti da adolescenti che rimasero estasiati dal negozio e da tutti i suoi derivati animali e in cotone.
Un elemento ormai sparito dalla voce “lavoro” dei suddetti profili, cui ora fanno tristemente capo altre voci. Le più gettonate? L’integerrima e saldamente riconosciuta “Me Stesso SRL”, e l’aristocratica quanto umile “Università della Strada”.