O meglio, Kobe Bryant non era solo un giocatore di basketball. Era un esempio, era un modello da seguire per milioni di appassionati della palla a spicchi e non, era un’icona, una superstar, che trascendeva il mondo dello sport. Era uno dei migliori della storia del gioco, tanto che, nel nuovo millennio, qualsiasi ragazzino che anche solo provava a lanciare una pallina di carta nel cestino da metà classe urlava “Kobeee”. Era tutto questo, ma soprattutto era un padre, un marito, un figlio, un fratello.
Alle 20.35 ora italiana un elicottero è precipitato a Calabasas (CA), secondo le prime ricostruzioni tutti e nove i passeggeri sono morti.
Fonti confermate da tutti i principali media americani riportano che sull’elicottero stavano viaggiando, tra gli altri, Kobe e la sua secondogenita, Gianna Maria Bryant (13).
Non era solo un giocatore di basket, ma non si possono non citare le 20 stagioni sempre fedele a quei colori che sono stati come una seconda pelle, non si possono non considerare le 17 convocazioni all’All Star Games, gli 81 ai Raptors nel 2006 o i 60 nella tua ultima allo Staples. Assolutamente non si possono non considerare i 5 titoli, il quarto posto nella classifica degli all time scorer, i due MVP della regular season e i due MVP delle finals.
Altro che Dlo, Kobe aveva il ghiaccio nelle vene, non si può parlare di clutch player senza fare il suo nome. Così come per la discussione sul goat. Nonostante venisse snobbato prima dai fan di MJ, poi da quelli di Lebron, Kobe sapeva fare tutto in maniera eccelsa.
Sapeva schiacciare, tirare, passare, aveva un ball handling incredibile e una visione di gioco fuori dal comune.
Ma Kobe non era solo statistiche e palmares, a differenza di MJ e Lebron, era un underdog che inizialmente ha dovuto sgomitare per farsi spazio nella lega. Nel ’96, a 18 anni, entra senza passare dal college nel campionato di pallacanestro più importante del mondo, lo fa inizialmente in punta di piedi, viene scelto con la tredicesima dagli Hornets che lo scambiano subito con i Lakers, dove fa un paio di anni da sesto uomo. Da quel momento il Black Mamba non ha mai smesso di emozionare. I tre anelli con Shaq, le operazioni al ginocchio, le olimpiadi, i mondiali, i titoli con Pau, il declino fisico e il ritiro nel 2015. Durante la cerimonia presentò una lettera di addio indirizzata al basket. Lettera che un anno dopo diventò anche un corto di animazione, vincitore dell’Oscar nella categoria nel 2017.
Ed è proprio questo che fa più male. Nonostante si fosse ritirato dal basket professionistico nel 2015, Kobe aveva ancora molto da dare al mondo. Era un sorprendente comunicatore, un ottimo allenatore e un padre premuroso. Con quattro figlie spesso gli veniva rivolta la domanda relativa alla sua eredità cestistica, su chi l’avesse portata avanti nel mondo del basket e se non avesse paura che andasse persa. Lui parlava della figlia Gigi:
“She’s like, ‘Oy, I got this’, I’m like that’s right, Yes, you do, you got this.”
Entrambi sono morti mentre si stavano recando ad una partita della squadra di basket di Gigi.