
Lo scorso 11 febbraio dal Sudan è arrivato un annuncio a lungo atteso: l’ex presidente Omar al-Bashir sarà condotto davanti alla Corte penale Internazionale dell’Aia per rispondere della accuse riguardanti i crimini di guerra commessi durante il conflitto nel Darfur. E’ stato Mohammed Hassan Eltaish, portavoce del governo sudanese, a dichiarare che era stato raggiunto un accordo internazionale per iniziare il processo. La notizia della condanna di al-Bashir è stata comunque celebrata dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani come un grande successo nella lotta ai crimini contro l’umanità.
Qualche scetticismo persiste invece negli analisti politici sudanesi, non certi che i militari abbiano effettivamente dato l’appoggio a Eltaish, parte civile del governo.
Magdi el-Gizouli, membro di un’organizzazione di ricerca, ha dichiarato: «Non sono sicuro che questo gesto significhi qualcosa […] inviare al-Bashir alla Corte Penale Internazionale è una bomba che non sono sicuro l’esercito voglia far esplodere. All’interno dei ranghi militari quella del processo ad al-Bashir è una questione molto divisiva».
Di fatto, le notizie che arrivano al riguardo sono parecchio contrastanti, segno di profonde scissioni interne alle istituzioni: alcuni fonti mettono in dubbio la consegna di al-Bashir, proponendo un processo in Sudan, con una Corte congiunta di giudici locali e magistrati dell’Aja. Tutto ciò mentre ancora gli avvocati dell’ex presidente si oppongono strenuamente all’estradizione, ribadendo la loro fiducia nei giudici del Sudan. Poco efficace sembra questo loro appiglio, visto che sono stati proprio gli stessi giudici sudanesi a condannare l’ex presidente a due anni di carcere per corruzione, lo stesso dicembre, con una sentenza pur sempre lieve rispetto alla distruzione operata da al-Bashir.
I crimini di cui si è macchiato
Salito al potere nel 1989, guidando un gruppo di ufficiali in un colpo di Stato per deporre il primo ministro Sadiq al-Mahdi. Da allora Bashir ha tenuto ininterrottamente il pugno di ferro sul Paese, instaurando un regime integralista fondato sulla Sharia e allacciando rapporti con i terroristi jihadisti. Oltre alla censura della stampa e la messa al bando dei partiti politici, arrivò ad autonominarsi capo di Stato, primo ministro, capo delle forze armate e ministro della Difesa.
Il conflitto nel Darfour scoppiò nel 2003, quando nella regione del Sudan occidentale gli agricoltori animisti vennero attaccati dai pastori arabi col sostegno delle milizie Janjawid; questi, “i demoni a cavallo”, sono militanti islamisti reclutati tra i nomadi arabi che col consenso ufficioso di Bashir massacrano la popolazione nera originaria del Darfur. Base teorica del genocidio è la storica avversione tra la popolazione nera autoctona e la comunità nomade araba: contrasto che è andato crescendo dall’indipendenza del Sudan nel 1956, e che Bashir raccolse decidendo di suggellare così la propria politica sanguinaria. Le cifre diffuse dalle Nazioni Unite sono raccapriccianti: trecento mila i morti ufficiali e oltre 2,7 milioni di profughi.
Nel 2005 una prima accusa di genocidio lanciata dagli Stati Uniti al governo di al-Bashir viene però smentita da un rapporto dell’Onu: non avendo mai direttamente fornito il sostegno ai Janjawid, ma avendo solo sorriso benevolo ai loro crimini, il Governo si mette al riparo da una condanna per genocidio. La guerra in questa regione imperversa per un decennio. Gli accordi di pace del 2008 e 2010 non bastano a spegnere i fuochi del conflitto, che perdurano ancora per qualche anno.
Il Sudan negli ultimi anni
Nel dicembre 2018 l’apparente svolta: i sudanesi hanno iniziato una rivoluzione pacifica contro il regime, più volte repressa nel sangue, che sarebbe però sfociata nella deposizione e arresto di al-Bashir lo scorso aprile. Il governo di transizione instauratosi, retto dal generale Awad ibn Ouf, ex vice presidente, dura poco: il nuovo governo è costituito dall’ispettore generale della Sudanese Armed Forced insieme al comandante delle RSF. Saranno loro a rendersi responsabili, lo scorso giugno, del massacro dei civili organizzatisi in un sit-in nella capitale.
I militari si sono infine accordati con i civili per una più pacifica transizione al nuovo potere: a fine agosto Hamdok è stato nominato primo ministro.
Un’apertura all’Europa?
La consegna di al-Bashir alla Corte dell’Aja è importante per riconoscere la dovuta giustizia alle migliaia di civili uccisi e ai milioni resi profughi: ma è anche un forte segnale di avvicinamento del Sudan all’Europa e agli Stati Uniti. Un’apertura che, auspicabilmente, porterà il Paese a non tollerare altri regimi dittatoriali e a normalizzare i rapporti diplomatici con l’Occidente.