Questa rubrica accompagna i lettori di Vulcano lungo il cammino delle primarie dei Democratici per la scelta del candidato da opporre a Trump il prossimo novembre. Esce ogni due giovedì.
Il 16 marzo scorso, ancora prima delle elezioni di Florida, Arizona e Illinois, Ian Bremmer, tra i più apprezzati e influenti politologi statunitensi twitta dal suo profilo personale
Biden is the nominee.
— ian bremmer (@ianbremmer) March 16, 2020
Di lì a poco rincara la dose creando un sondaggio in cui chiede ai suoi follower quando secondo loro Sanders si sarebbe ritirato. Il sentimento, soprattutto dopo la vittoria di Biden in ognuno dei tre stati sopracitati, è che oramai le possibilità per il senatore del Vermont di vincere queste primarie siano oramai nulle.
Sanders ha perso.
La vittoria di Biden in Florida, Arizona e Illinois, del 17 marzo ha portato l’ex Vicepresidente ad avere un significativo vantaggio su Bernie Sanders. In ognuno di questi stati il divario tra i due si attesta intorno al 20%, con in Florida, stato molto importante essendo multietnico e molto popoloso, punte fino al 40%. Sanders, inoltre, non meno di una settimana fa aveva perso anche negli stati di Washington, Michigan, Missouri, Mississippi e Idaho, vincendo solamente in North Dakota.
Queste nuove sconfitte si vanno a sommare a quelle del Super Tuesday, occasione nella quale, il senatore del Vermont, non aveva brillato. La conta dei delegati, per questo motivo, segna un pesante vantaggio per l’ex senatore del Delaware che si attesta a 1.165 contro gli 880 di Sanders (attenzione: i numeri potrebbero cambiare essendo ancora in corso gli scrutini al momento della scrittura di questo articolo).
Il fatto che Biden sia tornato ad esser il front runner dopo gli endorsement di buona parte degli ex candidati che avevano corso fino a poche settimane fa, ha fatto sì che il vantaggio iniziale di Sanders non contasse più nulla.
Mano a mano che si sta andando avanti con queste primarie c’è chi inizia a chiedersi che senso abbia per Sanders continuare a portare avanti la sua candidatura.
I sostenitori di Biden sperano che con un’eventuale uscita di scena del suo sfidante, si possa tornare ad una sorta di unità all’interno del partito, in vista della sfida con Trump che, anche se è già informalmente iniziata, comincerà ufficialmente a settembre. Dall’altro lato, diversi osservatori politici stanno riflettendo su come una resa di Sanders non significhi di conseguenza l’unità del partito. Già nel 2016 infatti la base elettorale di Sanders, bianca, giovane e molto agguerrita, non aveva gradito affatto la vittoria di Hillary Clinton alle primarie, ribellandosi in seguito anche allo stesso Sanders non andando a votare l’8 novembre del 2016, contribuendo così a far vincere Donald Trump.
Demenza contro demenza.
Sembra quindi chiaro che a novembre i cittadini americani saranno chiamati a votare o per Trump o per Biden. Se le differenze dal punto di vista politico sono individuabili senza troppi sforzi, un fattore, su cui in questi giorni si è molto dibattuto, sembra accomunarli.
La salute mentale di entrambi inizia ad essere sempre più messa in dubbio e a causa dell’età, Biden 77 e Trump 73, il discorso sembra essere più che doveroso.
Biden durante tutta la campagna è sembrato stanco, senza grinta e molto confuso, solo nell’ultimo dibattito è sembrato esser rinvigorito dalle recenti vittorie, ma in larga misura non si può affermare che le sue performance fin qui siano state brillanti.
In molti contesti infatti ha fatto errori grossolani, come quando ha confuso sua moglie e sua sorella, o come quando ha detto di star correndo per il Senato. Durante un discorso si è dimenticato parte della Dichiarazione di Indipendenza e in un’altra occasione ha detto di aver lavorato con Deng Xiaoping per gli accordi del clima di Parigi del 2015 (Xiaoping è stato un leader cinese morto nel 1997).
Donald Trump invece si trova a gestire una delle peggiori catastrofi della storia moderna e, se la sua salute mentale veniva messa in dubbio già negli scorsi anni, ultimamente a causa di diversi errori relativi alla gestione dell’emergenza, se ne sta tornando a parlarne.
Futuro molto incerto.
I risvolti, che potrebbe avere in termini politici, la crisi che è esplosa in America a inizio marzo a causa del contagio del virus Covid-19, non sono ancora chiari. Le primarie democratiche sono state una delle prime vittime del contagio, con diversi incontri programmati costretti ad essere cancellati e addirittura uno stato, l’Ohio, che ha deciso di posticipare a data da destinarsi la tornata elettorale.
Le passate settimane hanno però messo in luce anche il momento di difficoltà che sta vivendo Donald Trump. Con i vari problemi comunicativi e gestionali per contenere il virus (cosa che purtroppo si è vista in tutti i paesi occidentali), i mercati in caduta libera, la FED che riduce i tassi di interesse fin quasi allo 0% e la rinascita di Biden, Trump per la prima volta potrebbe non essere in grado di gestire la situazione. L’incertezza è assoluta, su ogni fronte non si ha idea di quello verso cui si va incontro.