C’è un proverbio, che è stato un’affermazione di Einstein, che recita:
La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti.
Milano sembra la città che più di tutte, in Italia, ne ha fatto il proprio motto: la velocità, di movimento e di carriera, è il suo spirito guida, ottimizzazione e produttività i suoi obiettivi. John Foot, nella sua Milano dopo il miracolo. Biografia di una città ne ha parlato in questi termini, esaltando la tipica propulsione verso il nuovo come carattere trainante per l’intero Paese.
In effetti Milano è un modello a cui ogni città italiana non può fare a meno di guardare – alcune con ammirazione, altre con più insofferenza: è la fucina di novità in vari campi, tra cui spiccano editoria, moda, informazione, gestione dello spazio urbano.
Per questo fa tanta impressione vedere Milano ferma, chiusa in casa, svuotata. Perché qui, più che altrove, una giornata senza una serie di impegni che si susseguono a catena è inaccettabile.
Milano è un asintoto per l’Italia, d’accordo, ma il fenomeno è ormai diffuso dappertutto. Internet ha contribuito a forgiare menti irrequiete, abituate alla comunicazione istantanea, all’informazione e all’intrattenimento costante. Non sopportiamo un minuto di connessione lenta che ci costringe a un’inutile attesa: in quel minuto davanti a un monitor bianco, con la rotella che carica la pagina web, ci sentiamo privi di uno scopo, insensati.
Il coronavirus ha esteso quel minuto a un periodo di tempo indeterminato: ci ha sostanzialmente catapultati nell’incubo peggiore per l’umanità contemporanea.
L’isolamento forzato fa questo: la casa, prima nido sicuro dove rilassarsi e godersi un po’ di riposo dalla vita frenetica fuori, si trasforma in una prigione. Fuori non si può andare, e anche se si possiedono i requisiti verificati per uscire, la solita vita fuori non la si trova. Allora ci si trova costretti a un riposo continuo: il «tempo libero» è diventato tutta la propria esistenza, e fargli vestire i panni del «telelavoro» o «telestudio» non è facile, senza orari a cui attenersi o edifici in cui recarsi.
I rapporti sociali sono vietati: viene così meno quel confronto e quel divertimento che fa bene alla salute.
In questa situazione c’è chi diagnostica l’arrivo di una nuova patologia, che colpirà più intensamente chi abita in una metropoli ed è abituato al suo respiro veloce: una «sindrome da abbandono», che si manifesterà con “ansia da separazione, insicurezza sentimentale, sfiducia negli altri, rifiuto dell’intimità emotiva”.
C’è chi, più positivo, vede l’occasione per rivalorizzare il «momento della famiglia», osservando più da vicino noi stessi e le persone che conosciamo da una vita. Rallentare, approfittarne per leggere di più, per studiare qualcosa di nuovo, per vedere dei film: può essere senz’altro il modo migliore per far fruttare questo periodo, ma è comunque qualcosa a cui l’uomo di oggi si deve abituare a fatica.
E se questa situazione di reclusione forzata, ora applicata all’Italia, con l’espandersi del contagio venisse adottata in tutti i Paesi? Si potrà dire che la globalizzazione ci si sia ritorta contro al primo imprevisto.
L’uomo nel corso dell’ultimo paio di secoli si è costruito un mondo che vive su grandi distanze e brevi tempistiche: le nostre produzioni e commerci sono su scala internazionale, i nostri viaggi estivi sono tanto più invidiabili quanto è distante il luogo prescelto, e possiamo costruire relazioni con persone dall’altra parte del mondo.
Ma il meccanismo della natura non è stato al passo con la nostra nuova realtà.
Ecco che un virus, qualcosa che esiste dall’inizio dei tempi, ci rispedisce all’età della pietra: chiusi nelle nostre caverne, fuori un predatore pronto ad assalirci, tutte le strutture sociali che abbiamo costruito, i collegamenti tra nazioni, le istituzioni, tutto è momentaneamente in standby.
La differenza tra noi e i cavernicoli che temevano i lupi è, in fin dei conti, Internet: è l’unico che fa arrivare nelle nostre case-prigioni il lavoro e l’intrattenimento, le lezioni in streaming, Netflix e le videochiamate con gli amici. Però l’occhio umano non sopporta di stare davanti a un computer per tutto il giorno, e comunque prima o poi le novità che il web o i social ci possono offrire termineranno.
Conviene allora guardare ancora una volta agli uomini del Paleolitico: per ovviare a questa vita monotona, attorno a un fuoco, nella propria caverna qualcuno inventò il linguaggio e iniziò a raccontare. A questo servì l’invenzione della letteratura, secondo Mario Barenghi: a «migliorare la capacità di convivere […] e al rafforzamento della coesione di gruppo» (Mario Barenghi, Che cosa possiamo fare col fuoco? Letteratura e altri ambienti, Quodlibet, Macerata 2013).
Chissà cosa potremo inventare noi, per uscire dalla solitudine senza poter uscire dai nostri appartamenti a prova di coronavirus.
Immagine di copertina, Slitscape -Milano, Claudio Sinatti.