Il 15 gennaio del 1914, a Middelburg nei Paesi Bassi, nasceva la piccola Esther Hillesum, figlia dello stimato professore di lettere classiche Louis Hillesum e della consorte Rebecca Bernstein, di origini russe. La piccola Esther, detta Etty, ha corti capelli neri, guance un po’ pallide e due vispi occhietti scuri, nei quali si percepisce tutto l’ardore di vivere che Etty sperimenterà durante la sua esistenza tormentata. Passeranno 29 anni da quel 15 gennaio 1914, 29 anni trascorsi tra appassionate letture di Rilke, lezioni di russo, amori passionali con uomini ben più vecchi di lei, pensieri tempestosi e ricerca continua della serenità interiore prima che, il 30 novembre del 1943, la luce in quei vivaci occhi scuri si spenga per sempre, annichilita dalle atrocità del campo di sterminio di Auschwitz.
Ma la voce di Etty non è ancora pronta a tacere, e rivive tra le fitte righe del suo diario, che ella curò dall’8 marzo 1941 fino a pochi giorni prima di essere deportata al campo di smistamento di Westerbork nel 1942.
Il diario di Etty Hillesum è un resoconto fedele delle vicissitudini che hanno coinvolto gli ebrei durante gli anni bui del secondo conflitto mondiale, che accompagna cenni storici e fatti di cronaca ad interessanti riflessioni sul proprio essere. Etty racconta con naturalezza il suo percorso interiore attraverso una fase di crisi che, a partire dal 1941, la obbligherà a chiedere aiuto al famoso psico-chirologo tedesco Julius Spier, nel diario citato semplicemente con l’iniziale S, del quale Etty diventerà segretaria, nonché intima amica. Ed è proprio questa ricerca disperata di soluzioni ai problemi esistenziali che affliggono la giovane Etty a rendere il suo diario moderno e originale ad ogni pagina. Non è solo una ragazza ebrea in fuga dall’Olocausto a parlare, ma una giovane donna qualunque, alla scoperta della sua identità, in lotta per accettare le sue emozioni e le contraddizioni barbare del tempo in cui vive.
Nel corso del diario Etty si svela in tutta la sua arguta e sensibilissima personalità, affrontando temi che, sebbene così distanti nel tempo, ci appaiono vicini e toccanti. “La vita è difficile davvero, è una lotta di minuto in minuto (non esagerare tesoro!) ma è una lotta invitante (…) io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena viverla ora, oggi, in questo momento” scrive Etty il 21 marzo del 1941. Sono parole dense di un significato che non deve passare in secondo piano rispetto alle vicende tragiche dell’Olocausto vissute dalla giovane ebrea, perché Etty non è solo spettatrice e protagonista della Seconda guerra mondiale, ma anche coraggiosa combattente di una guerra interiore che logora lei, ma che potrebbe colpire ciascuno di noi.
Proprio in questo periodo di instabilità e di incertezza le parole di Etty possono essere una voce dal passato che ci consiglia di non mollare, di essere forti e di sforzarci di vedere sempre il lato positivo, come ha fatto lei fino alla fine. Etty, infatti, affronta il suo futuro con coraggio e determinazione, non teme la reclusione nei lager tedeschi, non compiange la sua condizione (“In un campo di lavoro so che morirei in tre giorni, (…) eppure non troverei ingiusta la vita”, scrive nel 1942) e nemmeno si lascia sopraffare dall’odio che, ammette, ruggisce dentro di lei. Si tratta dello stesso odio che spinge i tedeschi a perseguitare il suo popolo quello che la attanaglia ogni volta che sente notizia di nuove violenze verso gli ebrei? Si, è lo stesso.
Ancora una volta ebrei e tedeschi sono sullo stesso piano umano, abitanti della stessa nazione, animati dalle stesse emozioni, vittime della stessa guerra. Ma Etty sa bene che “quell’odio indifferenziato è la cosa peggiore che ci sia” perché “se anche non rimanesse che un solo tedesco decente, quest’unico tedesco meriterebbe di essere difeso contro quella banda di barbari, e grazie a lui non si avrebbe il diritto di riversare il proprio odio su un popolo intero”. Il diario di Etty è un monito a volerci bene reciprocamente come fossimo tutti fratelli, uniti nelle disgrazie e nelle vittorie, tutti esseri umani senza differenza alcuna, come anche questa pandemia a caro prezzo ci sta insegnando. Ed ecco che l’animo tormentato di Etty si fa specchio non solo della crisi che stava vivendo la comunità ebraica nella Seconda guerra mondiale, ma riflette anche la nostra immagine, facendosi teatro di considerazioni di nuovo attuali e paure simili alle nostre.
Leggendo il suo diario, è inevitabile provare una forte ammirazione per questa giovane donna che, senza mai cedere alla paura, affida a Dio le sue più profonde convinzioni e riflessioni.
Quello a cui si riferisce Etty nel suo diario è un Dio personale, non un Dio trascendente, universale, ma il suo più intimo compagno, un amico con il quale confidarsi senza paura di essere tradita. Tra le pagine del diario riscopriamo una fede genuina e, per certi versi, rivoluzionaria che si aggiunge ai motivi di pregio di questa lettura. Questa fede spinge Etty a pretendere per se stessa un impegno attivo nel dolore del suo popolo: “Vorrei trovarmi in tutti i campi che sono sparsi per tutta l’Europa, vorrei essere su tutti i fronti. (…) Voglio esserci” scrive nel tardo pomeriggio del 30 settembre 1942, dimostrando anche alla nostra impaurita attualità che una sola persona può, e deve, fare la differenza.