
La trama de Il richiamo della foresta e la presenza di attori di una certa levatura quali Harrison Ford, Omar Sy e Dan Stevens, garantiscono il risultato di un film godibile, accolto favorevolmente dal pubblico nonostante alcune critiche rivolte all’eccessivo e imperfetto uso della CGI. Tuttavia, la formula “basato sul romanzo di Jack London” solleva aspettative non soddisfatte, tanto che forse sarebbe stato meglio sostituirla con la più veritiera “ispirato liberamente a”.
A onor del vero, il trailer del film già si fa spia di un cambiamento di direzione rispetto all’opera originale che, uscita su rivista nel lontano 1903, è da tempo considerata un classico.
L’omonimo romanzo si è infatti affermato come libro d’avventura per ragazzi, intriso tuttavia di un crudo realismo.
Protagonista assoluto è Buck, un cane dal carattere altero, cresciuto nell’assolata California, che viene rapito e poi venduto come cane da tiro per una delle tante slitte che sfrecciavano sui ghiacci del Klondike durante gli anni della corsa all’oro.
Il viaggio di Buck si rivela essere una lotta di sopravvivenza governata dalla dura “legge del bastone e della zanna”: la brutalità dell’uomo da una parte, e la superiorità animalesca del più forte, dall’altra. Alla fine del romanzo, il cane delle prime pagine è ormai irriconoscibile. Divenuto sempre più selvaggio e richiamato dalla voce di una natura primordiale, l’animale ora regna sui lupi, in una valle che i Nativi ritengono infestata da un cane fantasma o, addirittura, uno spirito maligno.
Ma cosa resta di tutto ciò nel recente adattamento di Chris Sanders?
Sopravvivono, certo, le tappe fondamentali del percorso intrapreso da Buck: il rapimento, l’esperienza presso il servizio postale, l’incontro con i tre sprovveduti cercatori d’oro, il rapporto amorevole con John Thornton e, infine, la conquista della libertà.
Riconosciamo anche la compagine dei personaggi animali e umani, che mantengono il proprio nome – nonostante un François trasformatosi magicamente in una Françoise – e, in linea generale, i loro ruoli interni alla narrazione. Rimane, infine, la centralità della figura di Buck, sebbene stemperata dalla risonanza di altri personaggi, in primis John Thornton che interpreta anche la voce narrante fuori campo.
Qui, tuttavia, si fermano le somiglianze. Senza soffermarsi sui molti cambiamenti di trama, troppo numerosi per essere analizzati appieno, è bene invece notare come tutte le modifiche sembrino seguire un obiettivo preciso: l’edulcorazione della storia.
In primo luogo, possiamo notare un addolcimento del carattere dei personaggi, conditi di una leggera indagine psicologica per quanto riguarda quelli umani. Troviamo infatti un Buck sempre giocherellone e affettuoso, un Perrault bonario, un John Thornton depresso e un po’ filosofo. Gli altri cani del tiro a loro volta sono stati rabboniti, soprattutto la nemesi Spitz, la cui rinomata ferocità ha solo deboli manifestazioni.
Tale edulcorazione si palesa anche rispetto alle sofferte esperienze di Buck: le percosse subite e le ferite degli scontri con gli altri cani sono appena accennate, il brutale clima del Nord sembra non scalfire il suo fisico, e della fatica del tirare la slitta vi è a malapena traccia. Infine, persino la morte violenta di John Thornton sembra avvenire in un silenzio pacifico, causata da una ferita che quasi non si nota, cullata dalla presenza del fedele compagno. Il suo è quindi un addormentarsi più che un morire, al pari della scomparsa degli altri cani del tiro che anziché annegare, semplicemente, “scappano”.
Due sono le spiegazioni possibili rispetto a questa forte manipolazione. Da una parte, essa potrebbe rispondere al desiderio di distinguere il presente adattamento dalla miriade di quelli precedenti, fra cui pellicole cinematografiche, serie televisive e cartoni animati. Dall’altra, potrebbe invece essere il risultato del voler adattare la storia per un pubblico più giovane, non solo ragazzi ma anche bambini, evitando di rappresentare le scene più crude – che chi ha letto il libro ben ricorda – e aggiungendo invece diversi spunti comici.
Tuttavia, anche se fossero state apportate per quest’ultimo nobile scopo, tali modifiche finiscono per trasformare la storia di sopravvivenza di un fiero animale, nell’avventura di un cucciolo mai del tutto cresciuto.
E così facendo, viene snaturato il racconto stesso e adombrato il concetto chiave del romanzo: il risveglio degli istinti primordiali e la necessità di un ritorno allo stato di natura, lontano dalla brutalità dell’uomo.
Non si può infatti dire che tale percorso sia assente nel film, ma è presentato in sordina e distorto attraverso le parole di John Thornton, che si fa portavoce del cambiamento di Buck e ne descrive il progressivo allontanamento come la necessità di «trovare la propria casa», un’aspirazione forse più umana che animale.
In definitiva, allo spettatore è chiesto di fare una scelta di ottica e, in base alle lente scelta, ne deriverà il suo giudizio sul film.
Lo si può considerare, infatti, come l’adattamento cinematografico de Il richiamo della foresta di Jack London, e restarne inevitabilmente delusi, e anche un po’ frustrati. Oppure, lo si può prendere per quello che è: un film ispirato alle avventure di un personaggio romanzesco, la cui odissea è stata riscritta in maniera affettuosa per avvicinarla ai più piccoli, e mettere in pace il cuore di alcuni adulti, ancora scottati dagli abusi subiti da Buck e dalle crudeli azioni cui la “legge del bastone e della zanna” lo costrinse.