
Il silenzio e la stasi imposti dalla quarantena hanno avvolto ogni istante della nostra giornata come una sottile membrana, lasciandoci soli di fronte a noi stessi e alle notizie che riuscivano a penetrarla. Questa condizione rischia di costringere i singoli in una posizione fetale nella quale il contatto con la realtà circostante si perde. Il lento riallacciarsi dei legami con l’esterno ci offre un’occasione per rivedere il contesto in cui viviamo e per interrogarci.
Esistono altre esperienze di quarantena oltre a quella vissuta personalmente? Esistono eccome, ma molte riguardano realtà nascoste, che sfuggono allo sguardo dei più.
Interessano persone che vivono ai limiti della società, ma che al tempo stesso ne costituiscono le fondamenta: i lavoratori migranti.
Nonostante SARS-CoV-2 fosse approdato da almeno due settimane in Italia, i caporali dell’Agro Pontino hanno pensato di risparmiare sul prezzo di guanti e mascherine. I braccianti della regione non sono stati adeguatamente informati riguardo alla pandemia, e alcuni sono stati costretti a recarsi sul luogo di lavoro senza dispositivi di protezione, sotto minaccia di licenziamento. Lo scorso 23 aprile, le 12 ore di lavoro giornaliero, la carenza di mascherine, guanti e un salario orario inferiore ai 4 euro a cui erano costretti numerosi lavoratori hanno condotto all’arresto di due caporali del luogo.
Le condizioni di vita si fanno durissime anche in altri capoluoghi del caporalato, come la Calabria. L’imposizione della quarantena ha immediatamente privato del lavoro i più di 4000 braccianti della regione, lavoratori alla giornata, che, impossibilitati nei movimenti, non hanno potuto recarsi in ricerca di un impiego. Il conseguente sovraffollamento di abitazioni di fortuna o tendopoli rischia inoltre di causare un’emergenza sanitaria non indifferente.
In più di 150 persone vivono all’interno di una baracca in contrada Russo, provincia di Reggio Calabria, alla quale non giunge acqua corrente. Come loro, altri 500 lavoratori sono stipati nella tendopoli di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, disposti perfino in otto nella stessa tenda.
Una ventina di questi ultimi sono stati protagonisti di una violenta protesta agli inizi dello scorso Aprile, a seguito dell’inefficace iniziativa proposta dalla Regione per gestire le richieste di derrate alimentari. Anziché fornire aiuti economici, l’assessore regionale Nino Spirlì ha proposto di costituire un servizio mensa all’interno della tendopoli e si è indignato di fronte ai dubbi sulla salubrità dell’iniziativa e alle proteste dei braccianti, rispondendo con un ennesimo “prima i Calabresi”.
A dispetto del pregiudizio che vuole questi fenomeni diffusi unicamente in meridione, anche le regioni settentrionali sono teatro di simili realtà.
Padova, Mantova, Verona, Lodi e Saluzzo sono solo alcune fra le città in cui decine di lavoratori vengono sfruttati ed esposti al contagio. Secondo le stime del periodico Nigrizia, solo il settore agricolo coinvolge più di 500.000 lavoratori stranieri. Come affrontare la consapevolezza che realtà simili siano diffuse sull’intero territorio nazionale?
Lentamente, i vincoli che la quarantena ha imposto si stanno sciogliendo e la realtà si ripresenta agli occhi di ciascuno. La società che in questi mesi si è trovata rannicchiata come un feto ha occasione di erigersi nuovamente, ma rischia di scordarsi, ancora una volta, di prendersi cura delle proprie fondamenta.
Articolo di Daniele Di Bella