Orizzonti è la rubrica mensile che Vulcano ha deciso di dedicare alla poesia, una forma d’espressione potentissima che merita di essere riscoperta.
Nell’immaginario collettivo c’è de sempre la tendenza ad associare il tanto idealizzato locus amoenus ai meravigliosi paesaggi rurali, alla verde campagna o tuttalpiù all’immensità del mare.
Dolci versi hanno cantato l’amore consumato nella natura più incontaminata, ruscelli e fiori hanno fatto da sfondo a storie che per loro natura rifuggono la freddezza dell’ambiente urbano e si rifugiano in paesaggi bucolici creati per essere spettatori di tali esperienze.
In questi contesti la città è un luogo chiuso, limitato da mura che impediscono alla mente umana di perdersi in spazi troppo estesi per essere compresi, è un luogo conoscibile in toto e per questo il poeta non si sente ispirato, ma avverte il bisogno di ricercare l’oggetto dei suoi versi nel mistero del quadro georgico circostante.
Tutto ciò cambia tra Ottocento e Novecento, secoli in cui le città si trasformano in metropoli e costringono l’uomo a confrontarsi con confini sempre più labili e spazi smisurati, a trovarsi di fronte all’altro da se stesso.
È proprio in questo periodo che nasce il concetto di folla, che si contrappone all’individuo.
Il primo a parlare di città in termini poetici è Baudelaire, flaneur che vaga in una Parigi ambigua, spaventosa e affascinante al tempo stesso. Il poeta maledetto analizza la città non solo geograficamente, ma la rende metafora della modernità e del progresso, muovendosi come un albatro goffo, comico e buffo tra le vie della città di fango.
In Italia il disagio della dimensione cittadina è perfettamente descritto dagli Scapigliati, che assumono una posizione di ostilità e repulsione nei confronti della modernità e del progresso tecnologico e scientifico.
L’epicentro della scapigliatura è Milano, ed è la stessa città che meglio rappresenta lo spazio urbano metropolitano che si rende protagonista della maggior parte dei componimenti poetici a partire dai primi del Novecento, concretizzandosi come canale per affrontare temi particolarmente sentiti nella società dell’epoca quali la solitudine e l’alienazione.
Dice infatti Montale: “Milano è un enorme conglomerato di eremiti”, descrivendo con poche parole il senso di solitudine che accompagna la quotidianità del singolo.
L’io si trova a contatto con una realtà troppo grande, eremita tra la folla entro cui non riesce a trovare una propria collocazione.
L’individuo si perde nella moltitudine, si cerca e si insegue senza rendersi conto che il caos che lo circonda non fa che alimentare la propria emarginazione: “Che solitudine in questa affollata città rombante!” scrive Rebora riferendosi alla sua città natale, evitando però di nominarla, come nella maggior parte dei suoi componimenti.
C’è chi invece Milano la ricostruisce in versi con tanto di particolari topografici e ne traccia una Cartina muta (1976), come Milo De Angelis che partendo dalla “nebbia della Comasina” raggiunge Via Vallazze, dove si trova la casa della poetessa Nadia Campana, morta suicida nell’85.
[…] Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. […]
In questa passeggiata che De Angelis vorrebbe non finisse mai, il silenzio della città muta si fa assordante e scompare insieme all’amica nell’infinità.
C’è poi chi alla passeggiata preferisce il tram, mezzo locomotore iconico:
Alibi e beneficio (1965)
Le portiere spalancate a vuoto sulla sera di nebbia
nessuno che salga o scenda se non
una folata di smog la voce dello strillone
– paradossale – il Tempo di Milano l’alibi
e il beneficio della nebbia cose occulte
camminano al coperto muovono verso di me
divergono da me passato come storia passato
come memoria: il venti il tredici il trentatre
anni come cifre tramviarie
o solo indizio ammiccante della radice perduta
una sera di nebbia agli incroci di ogni possibile sera
infatti è sera qualunque traversata da tram semivuoti
mi vedi avanzare come sai nei quartieri senza ricordo
mai visto un quartiere così ricco in ricordi
come questi sedicenti «senza» nei versi del giovane Erba
tra due fonde barriere dentro un grigio acre tunnel
con che pena il trasporto buca la nebbia stasera
alibi ma beneficio della nebbia globalità del possibile
che si nasconde ma per fiorire
in alberi e fontane questa polvere d’anni di Milano.
Vittorio Sereni, esponente della linea lombarda, menziona nei suoi versi tutte le peculiarità del capoluogo lombardo: dallo smog alla nebbia, dai quartieri (con riferimento ai versi di Luciano Erba) al grigio acre tunnel. Anni come cifre tramviarie, scrive il poeta, e il tempo scorre sui binari veloce ed inarrestabile.
Anche Alfonso Gatto, salernitano cresciuto all’ombra di un sole perpetuo, vede le giornate invernali e grigie nascere e morire in un battito di ciglia, perché per lui Milano a mezzogiorno è già crepuscolare:
Inverno a Milano (1963)
Vedete là nel cielo, in quel piccolo sole
d’inverno tra le nebbie, un ricordo del sole?
Come la luna guarda e si lascia guardare.
Milano a mezzogiorno è già crepuscolare.
E gli alberi anneriti in quel freddo d’argento
hanno rami gentili, a tratti passa il vento,
un vento senza voce, a poco a poco imbruna.
Solo il piccolo sole come una grande luna.
Così il Duomo fiorito di grigio e di lichene
appare nelle nebbie delle notti serene.
Alda Merini, invece, nella città meneghina ci è nata e cresciuta. La conosce bene, per lei non è solo grigio e solitudine ma è molto di più, ed è proprio Per Milano che scrive:
Non è che dalle cuspidi amorose
crescano i mutamenti della carne,
Milano benedetta
Donna altera e sanguigna
con due mammelle amorose
pronte a sfamare i popoli del mondo […]
Una Milano donna, una Milano mamma che ama se la si sa amare, che sa cullare chiunque nel calore di un freddo abbraccio, un centro cosmopolita pronto a dare un tetto di nebbia, di smog e di stelle a chi ne ha più bisogno.
Saba parla però di un tetto diverso, non fatto di stelle ma di parole:
Milano (1933-34)
Fra le tue pietre e le tue nebbie faccio
villeggiatura. Mi riposo in Piazza
del Duomo. Invece di stelle
ogni sera si accendono parole.
Nulla riposa della vita come
la vita.
Sono le parole, le luci delle insegne che si accendono al calar del sole, a farsi portavoce di una modernità che travolge l’uomo e che lo spaventa e lo culla al tempo stesso, permettendogli di riposare la vita.
Un’altra analogia con i corpi celesti è fatta da Aldo Nove, che nel suo libro Milano non è Milano (2004) scrive: “Roma è un pianeta. Milano è una stella. La più grande.” Prosegue poi, sempre commentando l’opera medievale De Magnalibus Mediolani: “Milano, ci racconta Bonvesin de la Riva, è una città meravigliosa, ma i milanesi (già allora) hanno troppa fretta e non se ne accorgono. Milano è la città più bella d’Italia. “
La bellezza di Milano è sfuggente, si nasconde nella vita frenetica dei suoi abitanti, troppo occupati a correre per poter godere della sua magnificenza.
Leonardo Sinisgalli si rassegna invece alla vita caotica milanese, preferisce fermarsi a osservare la città dalla sua camera, smettendo di correre, e ce lo racconta nel suo componimento Una camera a Milano (1956-62):
Io, forse, non esisto.
Non devo riempire la vita
di cose, di corse.
Appena mi ricordo di un altro.
Qui pianse per terra bocconi,
qui, dove sto ore e ore,
c’è un sibilo tra i balconi
e, dietro, la città.
La sensazione di annullamento in mezzo a tanta grandezza porta il soggetto a dubitare persino della sua stessa esistenza, lo costringe a isolarsi e a fermarsi ad ascoltare il suono del proprio respiro e il proprio pianto che aveva perduto tra il via vai di gente e di macchine impazzite, senza però rinunciare a contemplare la città dietro ai balconi.
Tanti altri poeti hanno omaggiato la città ambrosiana con versi meravigliosi, sarebbe impossibile citarli tutti: da Antonia Pozzi a Franco Loi, da Cucchi a Magrelli.
La Milano più vera però è forse quella raccontata da Raboni nella raccolta Le case della vetra (1966), in cui egli ritrae il paesaggio meneghino con toni talvolta cupi e spettrali ma che sanno trasmettere tutto il fascino di questa meravigliosa città che, come scrive il grande poeta milanese, altro non è se non “qualche inferriata, qualche rossastro brandello di muro, al quale mi piace pensare come al vero, occulto emblema di questa città appestata, invivibile, bellissima”.
Fotografie di Roberta Gaggero.