Nella visionaria Apocalisse scritta dall’apostolo Giovanni circa duemila anni fa vengono introdotte (cap. 6, vv. 1-8) quattro tetre figure che la tradizione ha voluto personificare nella morte, nella carestia, nella guerra e ultima, ma non meno importante nella malattia.
Questi grotteschi versetti mettono in scena i quattro mali che continuano ad affliggere la specie umana nel corso della storia. Tuttavia l’umanità europea di inizio XXI secolo non ha di certo conosciuto una vera e propria guerra territoriale o qualsivoglia carestia; il discorso cambia come ormai sappiamo per quanto riguarda la malattia.
Le novità, le preoccupazioni, lo spartiacque segnato dal periodo storico che stiamo vivendo sono ormai sulla bocca di tutti. I media tradizionali – ma soprattutto il web e i social – fanno rimbalzare da pagina a pagina termini come “peste”, “epidemia” e “pandemia”, “virus”, “morbo”, “untore”, “sanità” e chi più ne ha più ne metta.
Sullo sfondo di questi discorsi rimane in filigrana il fattore fondamentale che ci ha trascinato di fatto nella situazione problematica che il mondo occidentale e non sta affrontando, ovvero la sovrappopolazione, causa primordiale di diffusione di ogni tipo di malattia virale o batterica che sia.
Un’alta concentrazione di persone all’interno di uno spazio limitato infatti è sin dal tempo dei cacciatori-raccoglitori una mano tesa a vari fenomeni del mondo patologico come lo spillover, ossia la trasmissione di un patogeno ad una specie diversa da quella iniziale (il libro di Quammen è illuminante), il contagio uomo-uomo vero e proprio o la probabilità che nuove malattie si evolvano adattandosi all’ospite infettato.
L’antropologo Jared Diamond, così come il paleoclimatologo William Ruddiman che ne riprende gli studi, ci spiegano[1] rispettivamente in Armi, acciaio e malattie e ne L’aratro, la peste, il petrolio come l’avvento dell’agricoltura abbia di fatto favorito la diffusione delle malattie, passate e presenti. Per la maggior parte della storia umana (per circa 200.000 anni) i nostri antenati rimasero organizzati in piccoli gruppi dediti alla caccia, alla raccolta e alla pesca.
L’incontro con nuovi agenti patogeni era raro poiché le tribù umane si spostavano in continuazione per terre immense e spopolate. La mancanza di accumulazione di risorse da allevamento (pecore, capre, maiali, cavalli) sfavoriva le possibilità di ricombinazione dei microorganismi in maniera sufficiente da essere in grado di attaccare l’uomo.
Quando una malattia colpiva un clan o un gruppo locale una piccola parte moriva e vi erano scarsissime possibilità che venissero contagiati gli altri membri. E se anche fosse successo, la diffusione su larga scala era quasi del tutto impossibile per la mancanza di densità demografica (e quindi di corpi vicini) e per la relativa separatezza dei gruppi tribali. Tutto cambiò con la nascita dell’agricoltura cui seguì qualche migliaio di anni dopo la pratica dell’allevamento locale.
L’ammassarsi di un numero sempre maggiore di piante, animali e persone in luoghi circoscritti cominciò a rendere più probabile la nascita e la diffusione di nuovi virus e batteri nocivi.
Gli agricoltori e gli allevatori sono sedentari: scelgono un posto, possibilmente piacevole, vi si insediano a lungo termine e si dedicano a pratiche quotidiane pressoché uguali con lo scorrere dei giorni, instaurando legami fisici stretti con organismi di vario genere. I forti addensamenti di popolazione sono sempre stati il tipico brodo di coltura e il canale di rapida propagazione delle malattie [2].
Grazie alle ampie eccedenze agricole e alle risorse alimentari disponibili per periodi più lunghi e continui, le popolazioni iniziarono anche ad accumulare rifiuti e prodotti di scarto sempre più pericolosi. Topi, ratti, serpenti, uccelli sono tutti animali potenziali portatori di malattia, attirati sempre più insistentemente dal cibo prodotto dagli umani che inevitabilmente ne entravano in contatto.
Non a caso il bestiame arcaico è stato riconosciuto portatore di vaiolo, morbillo e tubercolosi ed è un fatto noto che l’influenza si originò nei maiali per poi passare all’uomo. L’agricoltura indirettamente portò all’aumento dei viaggi commerciali e quindi alla diffusione di malattie in zone più ampie presso popoli molto diversi.
Le tre grandi pandemie della storia umana (peste bubbonica di fine VI secolo, quella più famosa del XIV secolo – nota come peste nera – e il genocidio dei nativi americani tra XVI e XVIII secolo) dimostrano tuttora come a un organismo in salute basti un solo nuovo agente patogeno contro cui non si hanno difese immunitarie per porre fine alla sua vita.
Uno degli esempi più eclatanti è stato proprio lo sterminio degli indigeni americani: si stima che morì fino al 90% della popolazione locale a causa dell’arrivo degli europei. Furono uccisi dalle armi? Certo, ma soprattutto dalle malattie contro cui gli indigeni non avevano anticorpi adeguati non avendone mai avuto il bisogno di svilupparli.
Ed ecco come il vaiolo, l’epatite virale, il colera, il tifo, il morbillo e la stessa banale influenza decimarono decine di migliaia di umani apparentemente sani e in salute fino allo sbarco degli europei.
Nell’era post-industriale nella quale viviamo, a un aumento spropositato della popolazione mondiale fa da contrappeso un notevole miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, almeno per quanto riguarda i paesi più sviluppati, e questo ha contribuito a debellare molte malattie, a circoscriverle e anche a non permetter loro di evolversi mai.
Dalla nascita dell’agricoltura e del commercio su base regionale datati intorno al 10.000 a.C. molta strada è stata fatta. Gli spostamenti oggi avvengono su scala planetaria e sono rapidi, mediamente sicuri e lunghi. Oggi possiamo svegliarci a Roma e bere un American coffee a New York qualche ora dopo.
Possibilità come queste erano letteralmente impensabili fino a mezzo secolo fa. Non bisogna dunque stupirsi della straordinaria diffusione in tempi brevi del nuovo virus che ci sta mettendo alla prova in questo strano 2020.
Ma se il problema è la sovrappopolazione o meglio, l’aumento ingestibile della popolazione umana sulla Terra, cosa si può fare? E qual è il futuro probabile cui andremo incontro?
Da qualche migliaio di individui di epoche remote l’umanità ha conosciuto tra alti e bassi un costante aumento di popolazione. Il boom demografico si è avuto appena dopo la Rivoluzione industriale che ha permesso a una larga fetta della popolazione europea di vivere meglio e avere più possibilità di riprodursi e mantenere la prole.
Dai circa 2 miliardi di individui di cinquant’anni fa siamo giunti ora a quasi 8 miliardi di persone sulla Terra e il numero è in costante aumento. Si stima addirittura che entro il 2100 si supereranno i 10,8 miliardi [3].
Un gran numero di persone “ammassate” porta a numerosi effetti correlati: inquinamento, scarsità di risorse primarie, sfruttamento del pianeta, esaurimento dei combustibili fossili, ecosistemi violati e alterati, oltre agli effetti sociali di varia natura tra i quali alienazione e diseguaglianze economiche e lavorative.
La Cina, la nazione più popolosa con circa 1,4 miliardi di persone, da tempo è a conoscenza dei problemi legati alla sovrappopolazione (ne abbiamo parlato anche qui). Anche l’India, secondo paese più popoloso, versa in condizioni favorevoli per la nascita di nuovi virus e attualmente non sta praticando molti tamponi per tracciarne la diffusione.
È inevitabile che l’intervento umano sempre più imponente stia violando e distruggendo svariati ecosistemi. Il delicato equilibrio che lega l’uomo e i microbi si regge su molteplici variabili inserite in un sistema complesso e ancora poco compreso fino in fondo.
È una continua partita a scacchi per la sopravvivenza giocata da clima, surriscaldamento, sovrappopolazione, inquinamento, sfruttamento degli ambienti.
Ma alla fine dei giochi la sovrappopolazione e l’annesso consumo di risorse resta la causa principale degli sconvolgimenti del pianeta, con effetti a cascata. Si è persino scoperto in alcuni ghiacciai in via di scioglimento a causa dell’aumento della temperatura mondiale alcuni virus molto antichi, di fatto liberatisi per colpa nostra.
I dibattiti sono ancora aperti e probabilmente si ripartirà davvero soltanto quando il nuovo virus sarà scomparso dalle nostre vite – tralasciando l’impatto psicologico e sociale che già ha avuto sulle popolazioni –, ma gli inviti rivolti da studiosi e scienziati sono ancora una volta quelli di ripensare il rapporto uomo-natura.
Sono avvertimenti vecchi, ma sempre scottanti. Per quanto riguarda l’inquinamento in particolare si consiglia di seguire una dieta vegetariana, evitare di prendere l’auto e l’aereo e di mettere al mondo un solo figlio. Ma come si fa a mettere d’accordo quasi otto miliardi di teste?
Per adesso lo scenario più probabile sembra essere un aumento esponenziale degli abitanti del pianeta fino al raggiungimento di un picco massimo tra un centinaio di anni con bassa mortalità e basso numero di nascite correlato ad un generale invecchiamento della popolazione.
La transizione verso uno sviluppo sostenibile (se ci sarà mai) avverrà solo grazie a politiche specifiche, investimenti, educazione e sostegno. Rimane vero che l’umanità può essere considerata una vera e propria forza geologica, capace di cambiamenti ambientali enormi e a volte irreversibili. Siamo sicuramente nell’Antropocene – l’epoca dell’uomo –, ma a che prezzo?
Bibliografia:
[1] Cfr. J. Diamond, Armi, acciaio e malattie e W. Ruddiman, L’aratro, la peste, il petrolio, UBE 2015, pp. 156-171.
[2] L’aratro, la peste, il petrolio, p. 161.
[3] Cfr. J. Timperley, Il problema della sovrappopolazione, in BBC Scienze n°79, marzo/aprile 2020, pp. 66-69.