Si fa un gran parlare di “nuova normalità”. Una normalità di abitudini che si è imposta quasi senza difficoltà subito dopo l’imposizione della quarantena di inizio marzo, in Italia. Cosa richiede questa nuova prassi ai cittadini, alle aziende, alle attività di ristorazione, ai circoli sociali, alle università?
Ormai tutti conoscono le regole, tanto da far pensare che l’ignoranza della legge in questo caso davvero non sia più ammessa. Nei mesi scorsi i mezzi di comunicazione di massa, le conversazioni quotidiane, le notizie sui giornali hanno fatto un ottimo lavoro per seguire passo dopo passo, contagio dopo contagio, la diffusione del nuovo virus tra la popolazione: hanno trasmesso spesso e volentieri notizie leggermente contrastanti, in evoluzione nel giro di qualche ora, e volte a suscitare più espressioni di scetticismo e timore generalizzato che vera e propria informazione critica, che sia sul virus in sé, sulle conseguenze del distanziamento sociale (anche se è da preferire l’espressione “distanziamento fisico“), sui pericoli dovuti al condizionamento psicologico del nemico invisibile, e così via.
Tra i protagonisti della ripartenza, soverchiati da questo enorme calderone di regole, norme e visioni generalizzate sul pericolo del mondo esterno, popolato da potenziali untori, figurano le tanto ignorate e discusse università (ne abbiamo trattato anche qui). Le università sono state, in confronto ad altri centri culturali e non, quasi del tutto abbandonate a se stesse. Si è preferito puntare esclusivamente sulla didattica a distanza, molto sfruttata in questo periodo: come se bastasse accendere il PC e proporre lezioni lontane dalla normalità ed esami per sentirsi davvero partecipi di queste attività. Ormai si sta comprendendo sempre di più che questa normalità esige dei sacrifici, a partire dall’utilizzo della mascherina ancora obbligatoria nei luoghi chiusi o affollati, e in Lombardia anche all’aperto.
Il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi ha iniziato a far sentire realmente la sua voce soltanto nelle ultime settimane, a differenza della collega Azzolina. Il quadro generale delle Università italiane sembra presentare una lenta e graduale ripartenza, seppur tra molti dubbi, polemiche e diversità di opinioni e di intenti.
La maggior parte degli atenei è destinata ad aprire le aule a tutti gli studenti soltanto all’inizio del prossimo anno, quando, si spera, il nuovo virus sarà scomparso o almeno pesantemente circoscritto. La soluzione migliore al momento sembra appunto quella di ricorrere alla didattica a distanza. Questa scelta genera effetti su larga scala.
La prima obiezione che viene in mente è proprio contro l’utilizzo dei dispositivi digitali. Tralasciando il divario digitale, che intaccherebbe la possibilità di molti studenti e famiglie di poter adempiere agli obblighi accademici e scolastici, la didattica online cancella tutto quell’universo sociale fatto di incontri, discussioni, apprendimento diretto, interazione e capacità di dialogo che solo in presenza e dal vivo è possibile istituire in modo serio. «La vera università è quella in presenza. La vita accademica non è fatta solo di lezioni ed esami, ma da un’interazione continua tra studenti e tra studenti e docenti, che in presenza è molto diversa da quella telematica», afferma Eugenio Gaudio, rettore della Sapienza di Roma. Le sue parole rientrano nella lettera aperta indirizzata al Ministro Manfredi e firmata da circa 900 docenti italiani che esprimono una posizione molto chiara: l’idea di installare il plexiglass all’interno delle aule e degli uffici viene respinta perché ritenuta impraticabile.
La soluzione mista che prevede allungamenti degli orari di lezione o turnazioni multiple, alternate tra gruppi autorizzati a recarsi fisicamente in università e altri obbligati a rimanere in casa, ha conosciuto lo stesso rifiuto. I docenti firmatari, capeggiati dalla professoressa Costanza Margiotta, docente di Filosofia del diritto a Padova, insistono sulla natura temporanea e straordinaria della didattica online, come unico strumento attuale in grado di portare avanti il trasferimento di conoscenza. Il motto che traspare è appunto quello di «digitale quando serve».
Dati alla mano, docenti e ricercatori sono abbastanza sicuri nel considerare il virus in continua decrescita. Si mette in risalto l’apertura di bar, ristoranti, stadi, persino delle discoteche (con la paradossale regola di ballare distanziati almeno due metri. Si ponga la mano sulla coscienza chi crede che ciò sarà rispettato), ma le università rimangono sullo sfondo inermi, con il palliativo delle piattaforme digitali. La Statale, con un comunicato di tre giorni fa, annuncia l’apertura delle biblioteche dal 6 luglio: ci si potrà recare per consultare libri e fermarsi a studiare. Un brandello di normalità in effetti.
Il problema è che non tutte le università sono in grado di rispettare le rigide norme igienico-sanitarie varate negli ultimi mesi e la maggior parte sarà costretta ad aprire i battenti davvero l’anno prossimo. La discussione andrà avanti nei prossimi giorni e lo stesso ministro Manfredi dovrà dare una risposta chiara ai docenti e agli studenti.
Il tutto si risolve nella domanda: è davvero necessario, ora, impedire l’apertura delle università?
Le scuole secondarie di primo e secondo grado hanno retto molto meglio l’ondata del virus, forse in virtù delle diverse relazioni che legano docenti e classi; gestire migliaia e migliaia di studenti universitari ricorrendo esclusivamente ad internet è stato utile e necessario, ma le condizioni sono cambiate. La riflessione critica sulla didattica online va affrontata perché essa ha salvato l’insegnamento, ma rimettendo in discussione la sua stessa natura.
Altro effetto derivante dalla chiusura a oltranza degli atenei è il prodigioso calo delle richieste di affitto, arrivare a -70% rispetto all’anno scorso. Sempre più studenti sono indecisi su cosa fare in vista del nuovo anno accademico. Conviene cercare una stanza in affitto se la didattica proseguirà sullo schermo? È meglio disdire il contratto o aspettare un altro mese? Sono veri e propri dilemmi che non saranno risolti fino a quando non sarà data un forte risposta alle esigenze dei rettori italiani. Nel frattempo sappiamo solo che si prevede un abbandono del 20% dei discenti universitari, costretti a questo clima di dubbi. Una nota positiva è che probabilmente il prezzo medio delle stanze e case in affitto si abbasserà a causa di queste diserzioni.
Anche le tasse universitarie costituiscono un tema scottante e legato al precedente. Oltre alla fascia d’esenzione estesa a 20.000€ di ISEE, nel concreto, le università richiederanno le stesse quote di sempre. Un’iniziativa davvero concreta messa in atto è stata l’abolizione delle tasse per i fuorisede che tornano a studiare nelle università della Puglia. «Oltre a causare un problema sanitario, il Covid-19 ha ridotto la capacità delle famiglie nel sostenere i propri figli agli studi», sostiene l’Assessore regionale all’Istruzione, Sebastiano Leo. Sullo stesso binario l’Università di Palermo che esenta dai pagamenti quasi il 70% degli studenti per il prossimo anno accademico. Ragionevole sarebbe che altri atenei adottassero provvedimenti simili, ma anche qui i fattori in gioco sono molti e complessi.
Dire che ricorrere alle lezioni a distanza rappresenti un modello antiquato e solo falsamente progressista e moderno è guardare in faccia la realtà. Senza interazione, c’è solo conoscenza unilaterale; senza confronto c’è la dottrina; senza discussione frontale sopravvive il mero nozionismo. Per esempio, paradossalmente, costa molto di più attrezzare tutte le università con strumenti per la didattica a distanza piuttosto che attendere e osservare, per poi tornare tutti insieme a frequentare i propri atenei senza pericolo (resta da capire quale sia il numero di contagi giusto per dichiarare la fine del pericolo). Tutta questa vicenda sulle aperture degli atenei vede l’interferenza di tanti elementi, in particolare la concorrenza fra le università nell’attrarre studenti da fuori provincia e gli interessi delle città, specie medio-piccole, che ospitano gli atenei dai quali dipendono flussi di reddito essenziali.
Alla luce della ripartenza del calcio e dello sport in generale, possiamo domandarci: l’Italia che davvero riparte, in effetti, da dove lo fa? Dall’intrattenimento, dai soldi, dalla cultura?