Del: 14 Giugno 2020 Di: Giulia Ghirardi Commenti: 0

Le parole possono ferire, fare male, incastrarsi tra le costole e rimanere lì per anni ed anni. L’uomo ha sviluppato l’enorme potere di riuscire a sparare proiettili, fatti di idee, ideali distorti e di paura, pronti a bucare la pelle incidendo cicatrici profonde ed indelebili, ricordi per non far dimenticare. Ogni giorno i concetti di razza e di identità vengono sovrapposti, fraintesi e distorti.

La razza è un’identità assegnata, una condizione imposta da una serie di vincoli esterni, sociali e storici. 

L’identità tecnicamente al contrario definisce il modo in cui noi intendiamo noi stessi, il modo con cui costruiamo la nostra identità attraverso esperienze, emozioni, connessioni e rifiuti. E in questa rete di rapporti che costruiamo dentro e fuori di noi il luogo e lo spazio sono parte integrante di questo processo e le percezioni dei luoghi ci aiutano inevitabilmente a comprendere chi siamo.  Ogni giorno infatti l’identità di qualcuno viene attaccata, ferita, distrutta con taglienti parole o ambiziosi progetti politici, economici e perfino urbani. L’identità perde la propria connotazione soggettiva e personale e passa sotto un dominio estraneo, esterno, in linea con una logica che sembra puntare più alla costruzione di barriere piuttosto che alla creazioni di ponti, strade tra le persone.

Storicamente molti stati e città hanno approvato leggi che favorissero la segregazione residenziale, vietando la migrazione di certi gruppi razziali in alcuni quartieri. Leggi che sono poi state dichiarate cancellate in seguito ai movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta. Nonostante questi cambiamenti, molte città continuano a presentare profondi squilibri tra quartieri, ancora correlati alle diverse razze che ostacolano il trasferimento da un quartiere ad un altro. Negli Stati Unite le categorie razziali sono registrate dallo United States Census Bureau, sono riconosciute, accettate e si riflettono nella segregazione residenziale.

La discriminazione infatti non è un fenomeno prettamente verbale, anche se è il luogo in cui manifesta la sua forza più diretta, evidente ed immediata.

Ci sono forme di discriminazione nascoste, celate e radicate nel quotidiano della vita in cui si è immersi senza neanche accorgersene. Esiste il razzismo urbano celato nella costruzione e nella progettazione delle città, anche in quelle più sviluppate del mondo. Serpeggia tra le vie, nei palazzi davanti agli occhi di ciascuno che non avendo mai visto nulla di diverso sono portati ad accettarlo come realtà integrata e indiscutibile. Nel secolo scorso, all’assistere dell’esplosione delle città, le cosiddette “città infinite”, estesi territori urbani privi di forme stabili e senza confini netti in perenne espansione e attraversate da un’enorme molteplicità di flussi di persone, il tema delle disuguaglianze, delle fratture sociali e delle segregazioni spaziali riemerge con vigore. 

Quando furono costruite le arterie stradali che avrebbero dovuto collegare questi immensi spazi, furono le amministrazioni locali che ne scelsero i percorsi e poiché a comandare erano i bianchi, e la segregazione era la legge, si decise spesso di usare le strade come confini, per tenere i neri separati e lontani. Ancora oggi, anche se non più supportato da una legge, questo accade in molte città americane. Un esempio è la 8 Mile di Detroit.
In contemporanea poi all’esplosione delle città si assisté al cambio di rotta per cui non era più il centro il luogo del benessere, il luogo prediletto per trascorrere la propria vita. Cominciò a radicarsi nella comune mentalità l’obiettivo di voler scappare dai condomini cittadini per raggiungere spazi più verdi, più ampi ma collegati perfettamente ad ogni zona della città. Così le periferie, quelle zone che costituivano i confini delle città infinite prima intese come la zona più povera e problematica diventarono la meta delle “razze” dominanti della popolazione. I neri invece si stabilirono dentro le città, dove trovarono appartamenti più piccoli a prezzi più bassi.

Di conseguenza le zone del centro, le cosiddette inner cities, sono spesso le parti ora più difficili e degradate e al contrario le periferie suburbane, i cosiddetti suburbs, le zone più benestanti rigidamente separate dall’opera urbanistica. Nella formazione del territorio contemporaneo si assiste così a fenomeni di introversione e di ripiegamento ostile alle differenze. Si tratta delle “gates communities” che sono nate negli USA o dei “condominos fechados” in Brasile, aree recintate e protette nelle quali vigono esigenti regolamenti e in cui si entra solo per cooptazione tra eguali. Realtà urbane che diventano una vera e propria “negazione della città”, la piena rappresentazione di una sotto-società che si separa e non intende essere individuata come parte del “noi” più ampio. 

Dato però che il lavoro era in città, i bianchi cominciarono ad intasare le autostrade e a fare avanti e indietro ogni giorno. Così in tante città americane c’è un traffico micidiale ma pochi sanno che c’entra il razzismo. Ma come può una strada costituire un confine? Impedire l’accesso a determinate “razze” in specifici luoghi? Questo si spiega analizzando il grado di ricchezza connotato ad ogni specifica “razza”. La maggioranza dei neri infatti costituivano la parte più povera della popolazione e in linea con questo viveva ammassata in piccole case, conduceva un’umile vita e la grande maggioranza non poteva permettersi di possedere una macchina.

Gli autobus negli Stati Uniti, da sempre infatti, sono utilizzata da coloro che non posseggono un proprio mezzo di trasporto.  Negli USA “You just go by car you don’t take public transports”.

Proprio per questo per impedire ai neri di raggiungere una determinata zona della città fu sufficiente bloccare l’accesso agli autobus con gallerie o ponti troppo bassi sotto cui potessero passare. L’azienda per il trasporto pubblico di Atlanta si chiama MARTA (Metropolitan Atlanta Rapid Transit Authority) ma in città ancora oggi alcuni bianchi la chiamano “Moving Africans Rapidly Through Atlanta”

Una questione articolata e spigolosa, di assoluta attualità ed urgenza, diventa quindi quella riguardante il rapporto tra urbanistica, etica e politica. Lo spazio, prodotto sociale costruito e modellato nel tempo, è infinitamente malleabile, disponibile ai cambiamenti dell’economia, delle istituzioni e della politica perché in qualche misura costruisce la traiettoria lungo la quale questi stessi cambiamenti possono avvenire. Ogni costruzione di spazio mostra infatti una stretta correlazione con le disuguaglianze sociali nascoste ogni giorno tra le vie delle città e l’urbanistica si viene così sempre più ad affermare come un continuo esercizio di critica sociale che è mosso dalla consapevolezza che non esiste più una neutralità degli spazi. 

Non può più rimanere imparziale, disimpegnata e “oggettiva”. Perché parlare di città significa parlare dei cuori pulsanti delle società contemporanee e le lacerazioni urbane diventano specchio di quelle presenti nel tessuto sociale. Non esistono più solo i proiettili verbali ma anche i luoghi dove essi vengono prodotti e quelli verso cui, con estrema precisione, vengono indirizzati. Per questo riflettere sul senso del luogo diventa fondamentale ed imprescindibile per ridurre le disuguaglianze spaziali: anche questo è un compito che oggi apre al futuro. Un futuro in cui proiettili possano bucare le mura del mondo e non l’identità di qualcuno.

Giulia Ghirardi
Scrivo quello che non riesco a dire a parole. Amo camminare sotto la pioggia, i tulipani ed essere sorpresa. Sono attratta da chi ha qualcosa da dire, dall'arte e dalle emozioni fuori luogo. Sogno di vedere il mondo e di fare della mia vita un capolavoro.

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