Dark è finita. La serie di Baran bo Odar è giunta quest’anno alla sua conclusione, e lo ha fatto con una classe che ha lasciato il pubblico impietrito, stordito, scombussolato e indeciso se assegnare al finale un giudizio positivo o uno negativo. È il limbo a cui tutti gli amanti delle Serie Tv prima o poi giungono, e tendenzialmente più un finale divide più è segno di apprezzamento, altrimenti assisteremmo ad un giudizio globalmente negativo e chi s’è visto s’è visto.
Non ci impegneremo in questo articolo nel tentare di dare una spiegazione del finale né tantomeno si dirà quale sia la spiegazione filosofica che lega primo ed ultimo episodio, ammesso e non concesso che ci sia un legame, forse sì forse no. Ciò che si tenterà di fare è cercare di capire cosa rende questa serie una delle migliori in assoluto degli ultimi anni, tanto da venire eletta (ancor prima dell’uscita dell’ultima stagione) miglior serie per Rotten Tomatoes. Avvisiamo fin da ora che l’articolo conterrà spoiler, quindi se non avete visto tutta la serie è sconsigliata la lettura.
Cominciamo. Di cosa parliamo? Sostanzialmente, viaggi nel tempo. Già sorgono i primi dubbi: viaggi nel tempo? Di nuovo? L’abbiamo pensato un po’ tutti quando nel 2017 su Netflix comparve la prima stagione della serie. L’argomento di per sé non aveva attrattiva, era ormai già ben consolidato nella mente anche di chi guarda film sporadicamente e che magari capita su saghe come Ritorno al futuro o Terminator quel giorno previste dalla programmazione TV. Niente di speciale quindi?
La domanda è retorica. Dark si inserisce in un macro-genere, è vero, ma ne sconvolge e al tempo stesso ne consolida le fondamenta. Il viaggio nel tempo qui è tutto meno che un’avventura, anzi è un vero e proprio dramma, un incubo con una sola possibile fine, l’inizio. Il ciclo, questo nodo temporale apparentemente destinato a ripetersi all’infinito e che porta sempre alla medesima conclusione, l’apocalisse. I protagonisti si muovono quindi con un solo obiettivo, impedire la fine del mondo e salvare tutti da morte certa. Con una trama così però ancora non siamo convinti, ancora lo spettatore che c’è in noi non è soddisfatto, non c’è mistero, la nostra mente vuole di più…e Dark glielo dà.
Lo fa con il mezzo più semplice e scontato che si possa immaginare, e per questo sottovalutato a più riprese: una buona sceneggiatura.
Per quanto scontata, una buona sceneggiatura è ancora oggi ciò che distingue le grandi serie da tutto il resto. Dark pone i propri passi su di un pensiero unico e deciso, che non viene stravolto strada facendo e semina le proprie briciole con saggezza fino al penultimo episodio dell’ultima stagione. Non bisogna essere fraintesi, la sceneggiatura è buona, non perfetta. Non si può escludere che uno spettatore attento non riesca a trovare qua e là dei piccoli buchi o incongruenze, ma qui sorge in aiuto il Tempo, o die Zeit. Trattato come un effettivo personaggio, quello che per certi versi è il vero villain della serie, il Tempo scombussola ogni cosa, la modella e la cambia anche radicalmente mutando le stesse caratteristiche somatiche dei personaggi (ne sa qualcosa il tenente Wöller).
Perché è importante personificare il Tempo? A livello di scrittura funziona poter contare su un qualcosa di ineluttabile ed inconoscibile, permette di risolvere eventuali mancanze senza possibilità di replica. Se vogliamo sapere il senso di un personaggio ma questo non ci viene esplicitamente spiegato, la colpa è sua. È il Tempo a creare buchi. Dark è subdola, gioca con la mente dello spettatore, che ha di fronte a sé un personaggio invisibile ma onnipresente, odioso ma inevitabile. Un deus ex machina che condiziona lo stesso finale, che potrebbe non piacere a tutti, ma il cui significato, con uno sforzo d’immaginazione, non è poi lontano da quello che gli attribuiamo nel nostro quotidiano.
Ora c’è qualcosa che allo spettatore mancava, un ragionevole motivo per scordarsi di Ritorno al futuro. Ma ancora non grida al capolavoro: la serie è bella ma c’è di meglio. Dark raccoglie la sfida e rilancia di gran carriera. Ci riesce senza fare in realtà niente di straordinario, ancora una volta è la banalità di ciò che dovrebbe essere scontato ma spesso non lo è. La costanza. Dopo la prima stagione in molti temevano che il successo forse insperato avrebbe finito col danneggiare la serie stessa. Condizionale d’obbligo, perché la seconda stagione se possibile supera – sicuramente raggiunge – la prima, riuscendo a ricollegare ogni tassello a quello precedente. Soprattutto non butta via scioccamente quanto di buono aveva seminato: se la prima stagione aveva regalato uno dei villain più memorabili, d’impatto e iconici che TV ricordi, Noah, questo nella seconda viene ampliato, esplorato e rimpiazzato da un villain forse meno iconico ma con carisma da vendere, Adam.
Il tutto senza perdere di vista gli altri personaggi, che piano piano trovano tutti più spazio, tra chi intrigava già dal primo episodio e chi ha raccolto un’eredità importante ma ha offerto una prestazione indelebile, come l’ispettore Clausen che per un “gioco sporco” del Tempo si ritrova suo malgrado a innescare l’Apocalisse. Il bello è che Dark si prende anche un po’ in giro, inserendo qua e là stereotipi che si scontrano con l’incredibile complessità di tutto il resto. Come generare l’Apocalisse? Ovviamente con una centrale nucleare! Dove si svolge la trama? Ovviamente in un paesino sperduto in mezzo al nulla nella Germania rurale, quella Winden che forse ricorda più una cittadina nord-americana che un villaggio teutonico.
Un equilibrio che non prende in giro lo spettatore ma che al contrario gli consente di prendere fiato.
Arrivati a questo punto il senso di appagamento si risolve in un tumulto di emozioni che è difficile da contenere, e tutti vogliono sapere come finisce. Quando diventa ufficiale che la terza stagione sarebbe stata l’ultima i più avranno avuto una smorfia di disappunto: solo tre stagioni?
In effetti può risultare strano, specie per chi magari si era già lamentato delle sole cinque stagioni di Breaking Bad, ma a ben vedere non poteva essere migliore. Il ciclo si sta chiudendo, e la serie è ormai pronta ad esprimere tutto il suo potenziale per il finale.
Ma prima, un passo indietro. Non possiamo infatti concludere senza aver parlato di un elemento che rende Dark la serie che è oggi, la lingua. Chi fra i lettori non ha mai visto Dark in lingua originale ha perso tanto, tantissimo. Il tedesco è una lingua affascinante, mitica per certi versi e ricollegabile per caratteristiche grammaticali al latino ed al greco, lingue che rimarranno per sempre scolpite nella testa di chi le ha studiate. Ma ciò che più affascina è la terminologia che accompagna ogni episodio, un lessico che lascia di sasso per la precisione con cui identifica ogni avvenimento, segno che la stessa sceneggiatura non è stata adattata ad uno studio esterno, ma che è stata scritta ragionando ed indagando sul tema dei viaggi del tempo proprio nella lingua germanica. Ritmo, musicalità e recitazione rendono la visione della serie godibile tanto quanto la versione doppiata.
Poco sopra abbiamo detto che la sceneggiatura risulta perfetta dal primo al penultimo episodio, tralasciando volutamente l’ultimo. Non è per pigrizia che ci siamo dimenticati del finale, quanto piuttosto per un senso di giustizia verso l’episodio stesso. Ciò che il finale consegna allo spettatore è uno sconvolgimento, una sensazione di smarrimento che dura per giorni, ma risulta pienamente giustificata dalla complessità con cui il ciclo si conclude. Alla fine è proprio H. G. Tannhaus, l’orologiaio prestato ai viaggi nel tempo oltre che autore dell’indimenticabile libro Eine Raise durch die Zeit, il motore di tutto. La tragedia che vive in prima persona lo porta a ideare quell’infernale macchina del tempo da cui scaturiscono due mondi paralleli in perenne conflitto fra loro. Un risvolto di trama che forse pecca per la prima volta in assoluto di eccessiva velleità da parte degli autori, ma meravigliosamente concepito in un finale che rende finalmente giustizia al Weiße Teufel Claudia e ad Adam, un villain carismatico e tragico nel suo destino ridondante e da lui stesso temuto, che trova tuttavia la forza di spiegare a se stesso come distruggere il ciclo, anche se questo gli costerà tutto ciò che ha. Lo spettatore ha il suo finale, romantico, a lieto fine e forse anche sdolcinato, ma lineare e soprattutto giusto nello scrivere la parola fine ad uno sceneggiato che resterà uno dei massimi capolavori del genere.
A un mondo senza Winden!
Post Scriptum. Cosa sia davvero successo all’occhio di Wöller non lo sapremo mai, ma è chiaro che chi cerca di scoprirlo scatena l’Apocalisse, quindi forse è meglio non saperlo.