Disclosure arriva su Netflix in un mese particolare. Il documentario, che reca come sottotitolo Trans Lives on Screen, non esce infatti solo nel mese del Pride, ma anche in un momento storico denso sotto diversi punti di vista: non meno per le persone trans. Ripercorrendo i recenti avvenimenti, sappiamo che il 12 giugno l’amministrazione Trump ha minato severamente il diritto delle persone transessuali di venire assistite medicalmente, modificando la norma parte dell’Affordable Care Act (la legge della riforma sanitaria di Obama) che proibiva la discriminazione sulla base di «razza, colore, origini, sesso, età o disabilità» in ambito di accesso alle assicurazioni sanitarie.
Questa era stata interpretata in senso ampio, andando a includere anche le discriminazioni sulla base dell’identità di genere, senza vincolo biologico (che ora invece è esplicitamente sottolineato). Provvedimento che arrivava tra l’altro in un giorno significativo per la comunità LGBTQ+, cioè il quarto anniversario della strage di Orlando, Florida, dove 49 persone persero la vita a seguito di un attentato terroristico nel Pulse, un gay night club.
In un’altra direzione si è mossa invece la Corte Suprema degli Stati Uniti: il 15 giugno ha dichiarato, interpretando in modo estensivo una norma del 1964 contenuta nella legge sui diritti civili, che il divieto di discriminazione per i licenziamenti su base del genere sessuale è ora da applicare anche all’orientamento sessuale e all’identità di genere dei lavoratori.
Tutto questo in un mese che ora associamo internazionalmente a carri, lustrini, arcobaleni e feste, ma che nel 1969 fu cornice della protesta violenta dei moti di Stonewall. Personaggi come Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera (entrambe donne transessuali, la prima afroamericana) richiesero rumorosamente che le loro istanze fossero ascoltate e aprirono la strada per un principio di conversazione sui diritti civili LGBTQ+.
Il fatto che i Pride ora richiamino alla nostra mente immagini celebrative e mondane non cancella però i pericoli che ogni giorno si affacciano nelle vite delle persone protagoniste di queste manifestazioni, e nello specifico delle persone transessuali.
“Disclosure” in italiano può essere tradotto come “divulgazione”: è questo uno degli obiettivi che Disclosure documentario si pone, volendo aprire una conversazione sulla rappresentazione nei media delle persone transessuali e quindi partendo proprio dal presupposto imprescindibile della divulgazione. Analizzando circa 100 anni di storia mediatica, i creatori di Disclosure mostrano come si è arrivati (con fatica) ad avere per esempio la bellissima rappresentazione di Sophia Burset in Orange is the New Black (2013 – 2019), interpretata da Laverne Cox, la produttrice esecutiva del documentario.
La rappresentazione filmica transessuale è nata con la nascita del cinema: non parliamo quindi di una mancanza, piuttosto di reiterati tentativi stereotipati che hanno riflettuto e favorito un pregiudizio nella società. C’è rappresentazione transessuale persino nel famosissimo (ed estremamente problematico) Nascita di una nazione di David W. Griffith, spesso citato in questo ultimo periodo, visto il ruolo fondamentale che ebbe nella rinascita del Ku Klux Klan: ennesima dimostrazione di quanto sia influente il potere della rappresentazione mediatica.
Le voci che ci guidano attraverso gli anni con i rispettivi prodotti culturali sono quelle di attrici, attori, sceneggiatori, registi, critici e storici transessuali: ci sono MJ Rodriguez e Angelica Ross di Pose, c’è Lilly Wachowski dal dietro le quinte di Matrix, c’è Cox stessa a tenere le fila della discussione. “First and foremost, I made this film for trans people”. Sono le parole del regista Sam Feder, che ha specificato il bisogno di analizzare questi anni di narrazione per poter riappropriarsene e costruire un dialogo arricchente.
Rappresentare e parlare di persone transessuali oggi vuol dire portare con sé un carico di stereotipi che sembrano essere immutabili: ad esempio, si pensa quasi sempre a un ManToFemale (MtF: transizione a donna) e si pensa a certe caratteristiche estetiche di ipersessualizzazione. Disclosure, anche in questo caso, è fedelissimo ai suoi propositivi divulgativi iniziali e fornisce allo spettatore la lente storico-culturale per capire come si sia arrivati alla costruzione dello stereotipo. Fondamentale è stato il contributo di make up artist gay che si sono ispirati alle street queens, cioè persone transessuali che hanno forgiato la ball culture (mostrata in Paris is burning e Pose); queste a loro volta hanno attinto a due stereotipi di femminilità: le dive in bianco e nero hollywoodiane da un lato, e la rivisitazione di quest’ultime che le sex workers mettono in atto dall’altro esagerandone i caratteri, quindi ipersessualizzando il proprio corpo.
Una persona trans concepita esclusivamente come MtF è frutto della nostra cultura sessista e patriarcale, che ha visto per anni ritrarre nei media il corpo femminile filtrato da uno sguardo maschile.
La mercificazione del corpo delle donne si unisce all’idea profondamente radicata di una donna trans come “uomo invertito” rispetto alla norma: cose che a loro volta si legano al ruolo della prostituzione nella società, che spesso è anche il “mestiere obbligato” per chi vive ai margini. Il circolo vizioso si chiude: torniamo all’ipersessualizzazione delle prostitute, nata a sua volta dal cinema, ripreso da… Stereotipo che si lega a stereotipo, come un serpente che si morde la coda.
A questo si aggiunga il caso, ad esempio, di Jared Leto in Dallas Buyers Club: interpreta Rayon, donna transessuale, andando così a rafforzare lo stereotipo dell’interpretazione cinematografica da parte di un attore cis. Momenti simili hanno contribuito a creare nel pubblico una sorta di associazione inconsapevole: vedere Rayon sullo schermo e poi Jared Leto sul palco degli Oscar, porta a radicare nella mente degli spettatori l’idea che la donna transessuale non sia una vera donna, ma un uomo “travestito”.
Il tema invece sollevato dalla rappresentazione di Max in The L Word si collega anche a discorsi molto attuali riguardo al legame tra comunità transessuale e movimento femminista. Il personaggio di Max, uno dei pochi FemaleToMale (FtM: transizione a uomo), non ci spinge a empatizzare con lui, anzi: dalle stesse protagoniste delle serie è visto come un “traditore della causa”, non un uomo transessuale ma una donna che sta rinunciando alla sua “womanhood”, alla sua femminilità, o meglio al suo “essere donna”. La rappresentazione è ovviamente maldestra, perché un uomo trans non è mai stato una donna, nonostante l’aspetto fisico, ma il tema di scontro con le femministe resta ancora vivo.
Sono di questi giorni le accese discussioni con la sottocorrente trans-exclusionary della frangia radicale del femminismo che, partendo da posizioni di gender-criticism e appellandosi a definizioni esclusivamente biologiche di “uomo” e “donna”, sostiene che le donne trans non potranno mai essere veramente incluse nel movimento perché nate uomini, quindi estranee per dati di biologia a diverse rivendicazioni femministe.
È singolare e degno di nota che, nonostante i pareri delle persone transessuali direttamente coinvolte in questioni del genere, ci siano continui dibattiti anche su temi (apparentemente) minori, come quello del linguaggio inclusivo (la parola “menstruator” ha scatenato una disputa di non poco rilievo, che ha visto anche J. K. Rowling come protagonista: ma se un uomo transessuale non ha ancora potuto fare l’operazione e quindi ha ancora il ciclo, perché dobbiamo insistere nel parlare di “donne” in generale quando si parla di mestruazioni, senza neanche voler specificare “cis”?).
Quanto a rappresentazione di FtM, Boys Don’t Cry del 1999 fornisce due ulteriori spunti di riflessione. C’è chi ritiene che la pellicola sia un vero e proprio momento di rottura dopo anni di rappresentazioni fuorvianti, se non completamente sbagliate, della transessualità. L’interpretazione che ha valso a Hillary Swank un Oscar e un Golden Globe di un ragazzo transgender si distingue per delicatezza emotiva e intimità, ma porta inevitabilmente con sé un interrogativo.
Chi dovrebbe interpretare i ruoli di persone transessuali? Il documentario risponde implicitamente a questa domanda, muovendosi sempre tra le diverse scene dei vecchi film, ma senza mai appellarsi a una sorta di tribunale morale.
Feder e Cox scrivono in una lettera aperta:
Non volevamo demonizzare nessuna persona e nessuna storia; volevamo costruire un film sfumato che includesse molti, spesso conflittuali modi di rappresentazione. Possiamo amare qualcosa e guardarlo con un occhio critico.
Disclosure vuole riflettere insieme al suo pubblico rispetto alle criticità e alle conseguenze reali di tutti questi anni di rappresentazioni, che solo ora sembrano virare verso un’aderenza al mondo del reale. Esemplificativo da questo punto di vista è anche l’approccio di molti intervistatori e intervistatrici che in passato, rivolgendosi a ospiti transessuali, scadevano in banali interrogatori riguardo alle operazioni chirurgiche e al posizionamento dei propri genitali. Oprah stessa ha avuto modo di tornare sui suoi passi con un ospite transessuale: Disclosure ci mostra due interviste in cui la famosa conduttrice sembra avere imparato dai suoi errori, i quali sono stati corretti da una discussione che è stata intavolata. Il fine ultimo del documentario è proprio questo: piantare un germoglio di consapevolezza riguardo allo stato delle cose, far sì che il dibattito resti florido e spingere più persone all’inclusività.
Il fatto stesso che Disclosure oggi esista dimostra come le cose siano già cambiate rispetto a qualche tempo fa: ma ciò che ci racconta ci fa capire come la strada davanti a noi sia ancora molto lunga.