Del: 14 Luglio 2020 Di: Elena Gentina Commenti: 0
Essere donna secondo Natalia Ginzburg (credit: Getty Images)

«Affettuosa con le persone che le sono attorno, molto consapevole dei problemi umani e politici del mondo di cui siamo parte. Schiva e discreta. Silenziosa, in molte occasioni. Sempre attenta. La sua presenza non si deforma, non si appanna». Così Laura Balbo, sociologa e politica, ricorda Natalia Ginzburg.

104 anni fa, il 14 luglio 1916 nasce a Palermo da una famiglia ebrea una donna destinata a diventare una delle scrittrici più importanti nell’Italia del Novecento. Natalia Ginzburg (nata Levi) cresce a Torino in un ambiente intellettuale e antifascista durante anni difficili e tragici che racconterà in una delle sue opere più conosciute, Lessico Famigliare (1963), con la quale vinse il Premio Strega.

Nel 1938 sposa Leone Ginzburg, professore di letteratura russa all’università di Torino e militante antifascista, con cui ha tre figli. Natalia segue il marito nel confino in Abruzzo fino al 1943, ma l’anno seguente Leone, catturato dai nazifascisti, muore nelle carceri romane di Regina Coeli in seguito alle torture subite.

Dopo la guerra iniziò a lavorare come redattrice della casa editrice Einaudi a Torino, e la sua produzione letteraria continuò ad aumentare tra romanzi, saggi, opere di teatro e traduzioni. Nel 1950 si risposò con l’anglista Gabriele Baldini e da questa unione nacquero due figli. Durante gli anni Settanta la Ginzburg inizia a dedicarsi sempre più attivamente alla vita politica e culturale, venendo poi eletta nell’83 al Parlamento nelle liste del Partito Comunista Italiano. Muore a Roma nel 1991.

Moglie, madre, politica, ma soprattutto scrittrice.

È con quest’ultimo ruolo che la Ginzburg si autodefinisce, preferendo anche allontanarsi da chi la vuole più donna politica, come dichiara in un’intervista fattale da Serena Anderlini nel 1984 (Solidarietà e femminismo: dove tracciare il limite?, 1988): «Io non sono una politica, la mia visione del mondo non è politica, io lavoro nel mondo dell’immaginazione, sono una scrittrice».

Nei suoi romanzi dà voce alle dinamiche interne della famiglia, immedesimandosi nella vita di tutti i giorni e catturando la quotidianità delle donne scandita dalle dinamiche sociali che devono affrontare. Sono proprio le descrizioni dei corpi femminili e le abitudini alimentari che danno luogo a una rappresentazione letteraria dell’esperienza femminile e di quella ricerca di indipendenza sociale delle donne, come nei romanzi La madre (in Cinque romanzi brevi, 1964)  e Le voci della sera (1961), dove sono i personaggi femminili a compiere le scelte più coraggiose mentre quelli maschili sono spesso insignificanti, e talvolta incapaci di raggiungere il successo perché schiacciati da una società patriarcale che non apprezza la loro sensibilità e le loro qualità.

Natalia Ginzburg sostiene i diritti delle donne, ma nel saggio La condizione femminile del 1974 (scritto proprio durante gli anni della protesta femminile in Italia) ammette di non amare il femminismo, pur condividendo tutto quello che i movimenti femminili chiedono. In realtà il femminismo contro cui si schiera la Ginzburg è quel femminismo estremizzato (che non ha più niente di femminismo) che parte dal presupposto che le donne, benché umiliate, siano migliori degli uomini: «Le donne non sono in realtà né migliori né peggiori degli uomini. Qualitativamente, sono uguali». (Enrica Cavina, Natalia Ginzburg tra letteratura femminile e movimento neo-femminista, 2011). Anche nell’intervista con l’Anderlini sottolinea:

Io credo che gli uomini e le donne devono lottare insieme; gli uomini devono essere con le donne contro l’oppressione. Quando si sta insieme fra donne contro gli uomini è perché si ha un complesso di inferiorità. Bisogna andare al di là di questo, perché siamo tutti uguali. È la stessa cosa anche per gli Ebrei.

Di base per Natalia essere donna significava denunciare la drammaticità del ruolo femminile liberandosi dalle differenze di genere.

Forse poteva essere una posizione controversa, ma quello che a lei interessava maggiormente era scrivere, «uno scrittore è semplicemente uno scrittore: quello che importa è lo scrivere non l’essere uomini e donne» (New York Times magazine, 1990). Apprezzava scrittrici come Virginia Woolf ed Elsa Morante. Non amava però le raccolte di opere esclusivamente femminili perché vedeva il rischio di una marginalizzazione della produzione letteraria delle donne e, secondo lei, alcune donne quando scrivono non sono in grado di liberarsi dei sentimenti, non riuscendo a guardare a sé stesse e agli altri con ironia.

Il fatto è che, secondo Natalia Ginzburg, il vero problema delle donne è che «hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne». Questa considerazione della Ginzburg proviene dal Discorso sulle donne pubblicato nel 1948 sulla rivista Mercurio, fondata da Alba de Céspedes, e riportata nel volume, curato da Domenico Scarpa, Un’assenza. Racconti, memorie, cronache, pubblicato nel 2016 da Einaudi.

Questa sua riflessione, scritta appena dopo la guerra, potrebbe risultare una critica nei confronti delle donne, in realtà può e deve essere letta come un incitamento alle donne di non lasciarsi abbattere dalle loro insicurezze fatte nascere da una società che non le rende esseri liberi. A questo articolo le risponde la stessa Alba de Céspedes (inizialmente indecisa se pubblicarlo o meno) con una lettera in cui ribatte:

Mia carissima […] anch’io, come tutte le donne, ho grande e antica pratica di pozzi: mi accade spesso di cadervi e vi cado proprio di schianto, appunto perché tutti credono che io sia una donna forte e io stessa, quando sono fuori dal pozzo, lo credo. Ma – al contrario di te – io credo che questi pozzi siano la nostra forza.

È evidente come sotto certi aspetti alcune riflessioni di questo scambio possano essere attualizzate alla condizione della donna ancora nella società odierna. Una donna può ritenersi insicura per non essere “donna” come la società esige che sia e sono proprio queste le insicurezze che devono essere invece lasciate nel pozzo. Perché chiunque può essere una donna con la sua forza, diversità e capacità. Proprio come lo è stata anche Natalia. 

Elena Gentina
Studentessa di lettere moderne. Amo la musica, la letteratura e il cinema. Vivo tra le nuvole ma cerco di capire quello che sta a terra.

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