In un popolo infragilito da eventi incisivi si evidenziano debolezze su cui fa leva chi vuole ottenere, o mantenere, il potere.
Questa tendenza, comune a tutte le latitudini, si è evidenziata in Africa durante la gestione della crisi sanitaria: l’immobilità e l’isolamento imposti dal lockdown hanno concesso a diversi governi autoritari una facile occasione per trasformare in giogo le redini che legano la cittadinanza ai propri rappresentanti.
In primo luogo, sfruttando come pretesto il periodo di quarantena forzata, è stata minata la capacità di agire degli individui.
In questi mesi, infatti, il dispiegamento di corpi armati per controllare il rispetto delle norme di sicurezza si è protratto ben oltre i termini imposti dai diritti umani, mutandosi rapidamente in un’imposizione di potere; è esagerato il numero di soldati dispiegati per le strade del Togo – 5000 – o del Sudafrica – 73 000 – e gli abusi sui civili non si contano. La polizia non ha lesinato sull’impiego di strumenti di ogni sorta per “garantire la salute dei cittadini”: gas lacrimogeni, manganelli, bastoni, armi. In Kenya, le forze armate non hanno esitato a sparare sulle persone non rispettose del coprifuoco, uccidendo un ragazzino di 13 anni.
In secondo luogo, è stata sottratta ai singoli la capacità di interpretare la realtà.
Secondo l’associazione Reporter Senza Frontiere, il numero di paesi africani in cui la libertà di stampa non sussiste, ben 8, è aumentato dall’inizio della pandemia, mentre quelli in cui la stessa è ridotta a livelli tutt’altro che accettabili sono 18. Non vi è, nell’intero continente, un solo paese nel quale la libertà di stampa sia integralmente concessa. Viene dunque a mancare uno degli strumenti necessari per interpretare ciò che accade nel contesto in cui si vive, e gli individui sono lasciati in balia delle uniche versioni della realtà che vengono loro fornite.
La crisi sanitaria ha inoltre permesso ad alcuni uomini politici di giustificare la repressione della libertà di stampa dipingendo i cronisti come delatori del proprio paese agli occhi del mondo, costringendoli in una morsa costituita dall’ostilità del governo da una parte, e dall’ostilità suscitata nel resto della cittadinanza dall’altra. Il comandante dell’Esercito dello Zimbabwe si è spinto oltre, riferendosi ai social media come ad una “minaccia nei confronti della sicurezza dello stato”; nella medesima nazione, il noto giornalista Hopewell Chin’ono è stato arrestato lo scorso 21 luglio, ultimo, per ora, di una serie di reporter che dall’inizio del lockdown hanno subito la stessa sorte.
In questi contesti hanno potuto avere luogo azioni antidemocratiche come quella perpetrata il 10 giugno scorso dal parlamento etiope e dal primo ministro Abiy Ahmed: le elezioni politiche, fissate inizialmente per maggio e poi spostate ad agosto, sono ora state posticipate indefinitamente, a detta del parlamento, a causa del COVID-19. Il periodico Nigriziariporta che, nonostante i partiti dell’opposizione accusino Ahmed di utilizzare la crisi sanitaria come scusa per conservare il potere e inasprire le misure repressive, egli garantisce che: “La nostra posizione [del Partito della prosperità (Pp)] è sempre stata di tener fede alla data delle elezioni e non nutriamo alcun interesse a che la competizione elettorale non debba aver luogo. Tuttavia, la pandemia ha stravolto la situazione”.
Il rinvio delle elezioni, e questa risposta del primo ministro stanno causando gravi tensioni fra lo stato regionale del Tigray, rappresentato da uno dei principali partiti di opposizione, e il governo di Addis Abeba.
Queste situazioni, lontane solo in apparenza, consentono di osservare meglio le fragilità del nostro paese – le realtà disgiunte del Nord e del Sud, la malagestione dei flussi migratori che lo interessano, la recente crisi sanitaria – per prendercene cura ed evitare che si mutino in ferite aperte, a disposizione di chi ha il potere come unico obiettivo.
Articolo di Daniele Di Bella