
Definire Mama’s Boy come il memoir di Dustin Lance Black – attivista e sceneggiatore da premio Oscar con il docu-film Milk, nonché co-autore di sceneggiature del calibro di J. Edgar – è quanto mai riduttivo. Una descrizione più accurata è forse quella del Daily Telegraph che lo presenta come un libro che è «in parte memoir, in parte lettera d’amore a sua madre, in parte accorato appello alla tolleranza», ma ancora non è abbastanza. Mama’s Boy è infatti anche un’opera metaletteraria, un’ode allo storytelling stesso.
Il libro si fa portavoce dell’idea che raccontare una storia – la propria storia – sia il modo migliore per creare ponti tra concezioni diverse del mondo, e così cambiarlo.
Cresciuto nel Sud degli Stati Uniti, Black ci racconta i suoi primi quarant’anni, dall’infanzia vissuta nell’ambiente estremamente conservatore della Chiesa mormone e dell’esercito americano, agli anni più maturi che lo trasportano a Hollywood e, perfino, in un’aula della Corte Suprema.
L’autore condivide il palcoscenico del suo stesso memoir con la figura della madre Anne: da una parte un uomo che, scopertosi gay in tenera età, lotta contro la propria identità per mantenerla segreta, e poi contro il mondo per poterla vivere apertamente; dall’altra parte una donna straordinaria, il cui carattere è stato forgiato dalla sopravvivenza alla poliomielite e dalle quotidiane sfide che l’essere paralizzata dalla vita in giù le ha imposto.
I due condividono non solo il forte carattere, ma anche il background culturale che ne forgia la mentalità. Accade così che le uniche immagini di omosessuali che Black e la sua famiglia conoscono sono quelle dipinte dalla loro Chiesa, dal telegiornale, dai talk show televisivi: uomini e donne con corna diaboliche, peccatori infelici ed emaciati dall’AIDS. Non stupisce quindi che perfino ai suoi occhi di bambino, l’omosessualità sia una devianza e soprattutto una condanna alla solitudine e, poi, alla dannazione.
Black dovrà così aspettare quindici anni, e trasferirsi al college nella più liberale California, per conoscere finalmente veri gay e lesbiche e veder cadere i miti e le distorsioni che gli erano stati inculcati. Scopre che esistono altre persone come lui, persone che conducono vite normali, lavori normali, relazioni normali. La dannazione eterna non è più una certezza, e fare coming out diventa prima un’opzione e poi realtà. Lontano dalla famiglia e dal Sud che ama, finalmente Black prova il sentimento liberatorio che l’accettazione di sé gli regala, ma vivere apertamente la propria omosessualità tra gli amici di Los Angeles non è la stessa cosa che farlo a casa, sotto gli occhi della sua famiglia.
Infatti, quando la madre, quasi per caso, scopre il segreto a lungo taciuto, il rapporto drammaticamente si sfibra, almeno finché qualche mese dopo, Anne raggiunge il figlio a Los Angeles per assistere alla cerimonia di laurea. Qui una cena di benvenuto con gli amici di Black – la maggior parte giovani gay e lesbiche – si trasforma per lei in un’epifania. Avendo Black taciuto sull’omofobia della madre, infatti, gli amici credono erroneamente che lei accetti la nuova identità del figlio e questa incomprensione crea un fortunata circostanza:
Le raccontarono da dove venivano – città grandi e piccole di tutto il paese […] dove alcuni di loro erano stati buttati fuori dalle proprie case quando si erano dichiarati. [Le raccontarono] di come avevano raggiunto Los Angeles per diventare profughi di una città assolata, dove la notte non sarebbero morti di freddo se non avessero trovato un lavoro e una casa. Alcuni raccontarono di feste di Natale mancate, di famiglie con cui non parlavano da anni, di compleanni senza telefonate e telefonate senza risposte.
(Mama’s Boy, pag. 260)
Racconti che per Black e i suoi amici sono purtroppo la normalità, colpiscono invece nel profondo l’animo di Anne. In una sola serata, quelle storie personali – storie universali sulla famiglia, sull’amore e sulla perdita – invertono la tendenza dettata da generazioni di miti, distorsioni e pregiudizi che la Chiesa e l’opinione pubblica avevano inculcato in Anne, e creano così un terreno comune di confronto fra la concezione del mondo di lei e quella del figlio.
Vedere questa trasformazione nella madre, fa comprendere a Black che la lotta per i diritti LGBT+ deve essere condotta con armi diverse, non più attraverso statistiche, attivismo, politiche o leggi, ma racconti personali che sappiano far breccia nel cuore delle persone e così cambiarne le menti.
Questa diventa la missione ultima di Black ed egli lo fa a partire dalla storia di un uomo che durante quei primi anni in California aveva avuto il potere di cambiare la sua vita: Harvey Milk. Il libro ci racconta qui il difficile percorso della realizzazione del docu-film su questo consigliere comunale di San Francisco, il primo uomo apertamente gay a essere eletto nell’America degli anni Settanta. Diretto da Gus van Sant e con attori del calibro di James Franco, Josh Brolin ed Emile Hirsch, Milk è valso a Dustin Lance Black l’Oscar alla Miglior sceneggiatura originale e a Sean Penn quello al Miglior attore protagonista.
Ed è proprio dal palco degli Oscar nel 2009 che Black fa una promessa che lo impegnerà politicamente per gli anni successivi: l’ottenimento di pari diritti su scala federale, ossia in ogni singolo stato. Pochi mesi dopo, in un sentito discorso presso la Human Rights Campaign – come Harvey Milk aveva fatto prima di lui – lo sceneggiatore invita i componenti della sua comunità a «fare coming out e raccontare la propria storia personale […] al telefono, alla radio, in televisione e di persona […] per sfatare i miti e le bugie e gli stereotipi» che regnano negli Stati Uniti.
Black diventa così fondatore e partecipe di una causa contro lo Stato della California che aveva lo scopo di abolire la Proposition 8, una legge californiana di nuova costituzione che non solo dichiarava illegali i matrimoni gay, ma anche annullava quelli fino ad allora celebrati. Dopo sei lunghi anni il caso arriva in Corte suprema e finalmente vince: la legge viene abrogata, aprendo la via a una serie di cause a cascata che portano al riconoscimento dei diritti LGBT+ nella maggior parte degli stati dell’Unione.
Gli atti e le testimonianze del processo diventano poi per Black materia scrittoria e nel 2012, 8: the Play fa il suo debutto a Broadway con un cast d’eccellenza, fra cui Brad Pitt, George Clooney e Kevin Bacon. Ma la passione e il bisogno di raccontare storie non si esaurisce e nel 2017 Black lancia la docu-serie When we rise in cui racconta la storia della lotta LGBT+, dalla ribellione di Stonewall del 1969 fino all’attivismo della scorsa decade.
E ora qui, con Mama’s Boy, la missione di Black trova nuovamente compimento.
In uno stile vivido e appassionato, narra la propria storia personale come fosse l’immagine di un caleidoscopio i cui frammenti ci raccontano di sua madre, di suo fratello, di Harvey Milk, della lotta LGBT+ e del potere dello storytelling stesso. Un racconto dei racconti che lascia senza fiato e alla fine, in ultima riga, strizza l’occhio al lettore: l’autore ha raccontato tutte queste storie, spetta ora a chi legge raccoglierne il testimone.