Del: 28 Ottobre 2020 Di: Redazione Commenti: 0
Il caso Paty riapre il dibattito sulla libertà di parola su sicurezza e libertà di parola

Più di una settimana è già trascorsa dal terribile fatto di cronaca che ha sconvolto la Francia. Tuttavia, è probabile che le riflessioni che ne sono scaturite siano destinate a vivere una vita più lunga di quella che la comunicazione contemporanea riserva alle singole notizie. L’omicidio di Samuel Paty (questo il nome dell’insegnante francese decapitato) ha resuscitato domande che dopo gli attentati di Nizza e Barcellona erano state, se non del tutto sepolte, quanto meno declassate nell’agenda delle questioni politiche di rilievo: è possibile una convivenza con l’Islam? L’Europa è «sottomessa»? I confini del continente dovrebbero essere potenziati? Servono misure più repressive nei confronti delle organizzazioni islamiche?

La seconda domanda costituisce un buon punto di partenza dal quale sviluppare tutte le successive risposte.

Anzitutto per capire se, da un punto di vista prettamente numerico, l’Europa stia soccombendo a un’influenza islamica. Secondo le stime del Pew Research Center, la popolazione islamica in Europa si aggira intorno al 5%, per un totale di circa 25 milioni di abitanti[2]. La Francia, con l’8,8% (poco meno di 6 milioni di abitanti), è il Paese europeo che ospita il numero maggiore di cittadini islamici. Questi numeri, di per sé, non sembrano rispecchiare la visione di un continente afflitto da un’invasione incontenibile.

Tale visione risulterebbe sovrastimata anche nel caso di uno scenario pessimistico nel quale (sempre secondo le stime del Pew Research Center) gli islamici raggiungerebbero il 14% della popolazione europea (70 milioni di abitanti) entro il 2050 (l’Unione Europea, ricordiamolo, ha circa 500 milioni di abitanti; l’Europa “fisica”, cioè quella che si estende fino ai Monti Urali, ne conta circa 800 milioni).

A questo punto diventa lecito chiedersi se ospitare un simile numero di cittadini islamici sia di per sé sufficiente a causare una riduzione della sicurezza pubblica.

Stando ai dati del CAT (Centre d’analyse du terrorisme), nel 2019 il terrorismo di matrice islamista ha colpito l’Unione Europea 25 volte[3]. Tuttavia, questi 25 episodi sono così suddivisi: 3 attacchi, 5 tentati attacchi, 17 progetti d’attacco, per un totale di 10 morti e 34 feriti. In Francia, che abbiamo visto essere il paese europeo col maggior numero di islamici, si sono verificate 8 delle 25 fattispecie terroristiche, così distribuite: 1 attacco, 3 tentati attacchi e 4 progetti d’attacco. È bene notare, tra l’altro, che il numero di episodi terroristici è diminuito rispetto al 2017, quando nell’Unione Europea se ne registrarono 62, di cui 31 in Francia (5 attacchi, 6 tentati attacchi e 20 progetti d’attacco).

Ipotizzando che vi sia un’identità tra il numero di episodi terroristici e gli esecutori materiali, e che questi siano diversi di volta in volta, avremmo che nel 2019 una frazione pari allo 0,0001% della popolazione islamica europea ha messo a rischio la sicurezza pubblica. Nel medesimo anno e alle stesse ipotetiche condizioni, lo 0,00013% degli islamici francesi ha messo in pericolo la sicurezza pubblica francese. Anche in questo caso, i numeri a nostra disposizione non sembrano suggerire un pericolo dell’entità descritta nel dibattito pubblico.

Esaurite le piste numerica e terroristica, è il caso di percorrere quella della tenuta delle istituzioni democratiche.

La democrazia, infatti, con il suo corollario costituito dalla libertà di espressione, la libertà di culto e la tutela dei diritti individuali, è uno dei pilastri fondamentali degli Stati europei e sembra essere in apparente antitesi con l’Islam, che nei paesi dove è maggioritario non acconsente ad alcuna di quelle libertà. La riflessione logica che ne consegue è che, più è elevato il numero di islamici, più la democrazia è a rischio di sopravvivenza.

Tuttavia, anche in questo caso, i numeri paiono fornire una risposta controintuitiva. Paesi come la Norvegia, la Svezia e la Svizzera, che ospitano una frazione non indifferente di islamici nella loro popolazione (rispettivamente 5.7%, 8.1% e 6.1%) rientrano nella top ten delle democrazie più solide stilata dall’EIU’s democracy index (elaborato attraverso l’analisi di componenti come i processi elettorali, il pluralismo, il funzionamento del governo, la partecipazione politica ecc.). Anche paesi come la Germania e il Regno Unito (in cui la popolazione islamica è rispettivamente il 6.1% e il 6.3%) presentano, su una scala da 1 a 10, indici di “democraticità” pari a 8 o anche più.

È anche curioso notare come sembra esserci una relazione inversamente proporzionale tra il numero di islamici presenti in un paese e la percezione positiva che si ha di essi. In Paesi come l’Italia, l’Ungheria e la Polonia (in cui la popolazione islamica è rispettivamente il 4.8%, lo 0.4% e meno dello 0.1%) si registrano le percentuali più elevate di opinioni sfavorevoli agli islamici.

La discrepanza tra i dati e la realtà percepita può essere in parte spiegata dall’impatto che hanno certe notizie.

La decapitazione di un insegnante o una strage condotta a bordo di un tir in una delle più note città francesi sono eventi inusuali, eclatanti, sconvolgenti e che, proprio per questo motivo, indirizzano più facilmente le decisioni del pubblico. A questo bisogna aggiungere che le notizie terrificanti sono naturalmente più predisposte a catturare l’attenzione del lettore e che, in un periodo storico dove le persone leggono mediamente poco e i media dell’informazione vivono di inserti pubblicitari, questi potrebbero essere tentati dal farne un uso sconsiderato. Come per l’appunto succede.

Tuttavia, alimentare, consapevolmente o inconsapevolmente, pregiudizi nei confronti di alcune minoranze può avere effetti controproducenti, anche dal punto di vista economico, aspetto che quando si parla di razzismo è poco indagato. Secondo uno studio condotto da Marie-Anne Valfort della Paris School of Economics, in Francia, per gli individui percepiti come islamici le possibilità di ottenere un colloquio di lavoro sono di quattro volte inferiori a quelle degli individui percepiti come cristiani[7]. Inoltre, i candidati con nomi arabi ottengono il 25% in meno dei riscontri positivi rispetto ai candidati con nomi francesi. Riparando a queste ineguaglianze, la Francia potrebbe incrementare dell’1.5% (poco più di 3 miliardi di euro) il prodotto interno lordo nel corso dei prossimi 20 anni.

I dati analizzati sino a questo punto fanno sorgere in modo naturale un’ultima, quanto fondamentale, domanda: è giusto, o conveniente, impedire la critica di aspetti dell’Islam che, seppur nella maggior parte dei casi sovrastimati (quanto meno in Europa), costituiscono un’inoppugnabile verità, come l’avversione allo stile di vita occidentale, alla secolarizzazione, alla parità di genere? O, in altri termini: una percezione distorta della realtà giustifica l’introduzione di un reato vago e discutibile come quello di “islamofobia”? Il modo migliore per rispondere alla disinformazione è ricorrere alla legge o affidarsi alla libertà di parola?

Queste, così come quelle evocate nel primo paragrafo, sono domande che, se poste alla luce della durezza dei fatti e lontano dal sensazionalismo e dalla compressione con i quali sono veicolate le notizie, richiedono riflessioni tutt’altro che semplici. Riflessioni che, indubbiamente e inevitabilmente, meriteranno un’oculata attenzione da parte dei policy-makers. 

Articolo di Edoardo Pozzato

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