Del: 6 Novembre 2020 Di: Federico Metri Commenti: 0
Da rivedere per la prima volta: "Arrival"

Il genere fantascientifico, sia letterario che cinematografico, ha come struttura portante l’ignoto, ciò che non si conosce, fattori variabili che non si riescono a identificare e comprendere. Alieni venuti per distruggere la terra, esplorazione di universi misteriosi e mai visti, replicanti e robot che sviluppano una coscienza e si ribellano ai loro creatori sono stati per decenni gli incipit delle molte opere uscite e sono stati i protagonisti indiscussi delle storie che venivano raccontate, lasciando così scoperto il lato forse più curioso e intrigante, quello umano.

Ted Chiang con il suo racconto Storia della tua vita, trasformato nel film Arrival da Denis Villeneuve nel 2016, ribalta completamente il processo creativo.

Pone l’ignoto fantascientifico come semplice pretesto per analizzare la condizione umana, approfondendo proprio come il lato umano reagisce a ciò che non conosce, come si comporta quando è posto di fronte ad un bivio esistenziale.

L’esordio del film è chiaro e immediato: dodici navicelle aliene arrivano sulla terra e si posizionano in dodici punti diversi. La causa ignota porta a due conseguenze opposte. Da un lato la popolazione è spaventata, protesta e scappa lontano dai luoghi invasi, non sa come comportarsi di fronte a un fenomeno che non conosce; dall’altro la linguista Louise (Amy Adams) e il fisico Ian (Jeremy Renner) vengono ingaggiati per provare ad approcciare l’ignoto, a capirlo e studiarlo.

I due protagonisti entrano in una delle navicelle e fanno la conoscenza di due entità aliene. Cominciano a dialogare, a instaurare un rapporto, mentre però fuori il caos incombe e la collaborazione viene schiacciata dall’egoismo, che porta alle prime mobilitazioni armate e alla chiusura territoriale e mentale.

Se da un lato il film porta avanti il rapporto crescente instaurato tramite il linguaggio tra i due esseri umani e i due alieni, dall’altro il mondo circostante ha bisogno di risposte, di certezze che sono state messe in discussione dall’invasione. Il punto di svolta è la domanda che è obbligata a fare Louise dalle nazioni decise a non aspettare oltre: il motivo della loro visita. La risposta è spiazzante e apre ad altre domande: il loro linguaggio è lo stesso di quello umano? Il significato di ciò che dicono può essere compreso a fondo o è solo interpretabile?

Arrival è un film di fantascienza dove la fantascienza è lo sfondo di qualcosa di puramente umano, reale, con un finale che ribalta tutta la narrazione portata avanti fino a pochi minuti dalla fine, con una forte critica al linguaggio umano e al credere fermamente che possa spiegare tutto e seppellire le differenze, con un messaggio talmente forte e intenso che sovrasta l’intero contesto in cui è raccontato.


Attenzione: i paragrafi successivi contengono spoiler


Il linguaggio stesso è il superpotere e il centro riflessivo del film.

La differenza nell’esprimersi da parte dell’umano rispetto all’alieno viene man mano diminuita grazie alla collaborazione, al dialogo, all’affrontare un problema dalla radice fino al punto più alto, con pazienza e senza correre. Il risultato di un atteggiamento del genere è la totale comprensione dell’ignoto, Louise riesce ad assimilare il linguaggio alieno, il quale non è altro che un dono, la possibilità di parlare un linguaggio staccato dalla dimensione temporale e quindi poter vedere ciò che accadrà nel futuro.

Questo le permette sì di salvare il mondo da una guerra completamente inutile ed evitabile, ma di conoscere anche quello che la vita le riserverà. Lo spettatore comprende che i flashback non sono altro che l’opposto, che a Louise spetta una vita piena di amore, ma interrotta da un male atroce. È qui la svolta del film, il messaggio più importante: Louise decide di non cambiare niente, di avere una bellissima figlia che amerà fino all’ultimo istante, di sopportare un dolore che la distruggerà interiormente.

Tutto questo perché il viaggio varrà la pena di essere vissuto anche se conosce la destinazione, perché accoglierà ogni momento nella sua totalità. Il film è un sì alla vita, all’accettazione di ciò che siamo destinati ad essere e diventare. Una madre vede i momenti più belli di sua figlia, vede la gioia, vede la malattia, la morte, e dopo averlo visto deve ancora viverlo, di nuovo, quasi bloccata dentro un eterno ritorno, ma lo accoglie a braccia aperte.

Federico Metri
Assiduo lettore, appassionato di cinema e osservatore del mondo. Comunico attraverso una scrittura personale e senza filtri.

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