In una scena di “The Runaways”, film del 2010 dedicato all’omonimo gruppo rock, Dakota Fanning, che interpreta la giovanissima Cherie Currie (cantante del gruppo), guardandosi allo specchio inizia a tagliarsi i capelli modellandoli in un biondissimo mullet; poi prende un pennello, lo intinge nella tempera rossa, e inizia a disegnare una saetta sul volto. In due semplici gesti, a chi siede dall’altra parte dello schermo, è subito chiaro chi stia cercando di imitare.
Il David Bowie tra chioma rosso fuoco e viso truccato è probabilmente quello conosciuto ai più, è anche un David Bowie incompleto: alle proprie spalle tante storie quante ne avrebbe poi raccontate con la sua persona. E quale occasione migliore per parlare di storie se non la pubblicazione italiana, a cura di Blackie Edizioni, de “Il book club di David Bowie: i 100 libri che hanno cambiato la vita di una leggenda”, scritto dal giornalista John O’Connell?
La lista dei 100 libri scelti dall’artista – nato a Brixton nel 1947 con il nome di David Jones – è stata scritta di suo pugno: è lo stesso O’Connell a suggerirci come questo gesto alimenti la narrazione che vede Bowie parte attiva – attivissima – nella costruzione del proprio mito (passato, presente, futuro). Il giornalista ha pensato di accompagnare ogni titolo con un breve saggio, riuscendo in un’impresa potenzialmente autodistruttiva: accogliere la complessità di una carriera come quella di Bowie, senza un informatico copia e incolla di nozioni alimentate da un fine didascalico. In qualsiasi momento si può aprire un saggio qualunque contenuto nel volume e, senza aver letto precedente e successivo, O’Connell burattinaio muove un pezzo di vita di Bowie, spesso un pezzo di vita dello scrittore di uno dei cento libri e poi, ovviamente, un pezzo di materia letteraria.
Non è strettamente necessario avere una conoscenza della biografia del cantante inglese, conoscerne tutti i vorticismi (come quel Vorticismo poundiano che invece Bowie conosceva bene) dagli anni Sessanta al nostro Secolo, ovvero quello della sua morte.
È però quasi certo che, una volta finito un saggio se ne voglia iniziare un altro, e poi un altro ancora, e poi accendere il computer e cercare quella canzone che O’Connell cita, quel film in cui Bowie ha recitato, quell’indirizzo dove abitava a Berlino alla fine degli anni Settanta.
È proprio quel periodo della chioma rossa, impresso nella testa di tutti, ad aprire le danze. Per David Jones, che negli anni Sessanta sposava l’inglesissima subcultura giovanile Mod, è stata anche una lettura a cambiare tutto. Intorno al 1972, il giovane che aveva già incontrato il successo con quattro album e che aveva già cantato del celebre Major Tom, subisce il fascino di “Arancia meccanica”: il romanzo distopico di Anthony Burgess che oggi tendiamo a evocare prima nella versione cinematografica di Kubrick (dalla quale, comunque, anche Bowie aveva attinto).
Nasce in questo momento Ziggy Stardust (come spesso ancora lo si chiama, forse sbagliando o forse no): senza genere, alieno, si muove e fa muovere gli Spiders from Mars – i componenti della band – dentro a scintillanti bluse e pantaloni infilati in stivali stringati. Sono i drughi di Brugess, ma senza il dettaglio estetico delle brachette, dettaglio che contribuiva a renderli ancor più disturbanti. Più luccichio, una versione glam rock: lo diceva lo stesso Bowie.
Titoli come “Il dogma dell’alta magia e il rituale dell’alta magia” e i “Vangeli gnostici” oggi potrebbero anche andare a braccetto con un certo livello di coolness, ma quando nei primi anni Settanta, quelli statunitensi – al culmine della sua dipendenza da cocaina – Bowie appariva nelle interviste televisive disegnando strani simboli sul tappeto, le allusioni rispetto alla sua figura e a determinati messaggi veicolati nei testi delle sue canzoni erano tutt’altro che lusinghiere. “Station To Station”, l’album manifesto di questo periodo, ingloba questo tipo di letture, spesso in maniera approssimativa: tra Cabala e Albero della Vita, da una stazione all’altra.
Leggere e ricordare dei successivi anni berlinesi di Bowie ha sempre un sottotono romantico: la Berlino degli anni della guerra fredda è la città della sua rinascita dopo l’esperienza con la droga, è la città che gli ha fatto conoscere nuovi suoni (come quelli dei Neu!) e, ancora una volta, si tratta di una scelta – quella del trasferimento – che ha accompagnato a una lettura ben precisa: “Addio a Berlino” di Cristopher Isherwood.
Quello che O’Connell riesce a fare – e bene – è tratteggiare un Bowie moderno, curioso verso tutti e tutto, non solamente cristallizzato nei personaggi che si divertiva a creare.
Un Bowie che legge Wallace Thurman e ascolta Kendrick Lamar, che guarda “Peaky Blinders” su Netflix proprio come alcuni di noi che non erano ancora nati quando lui cantava “Heroes” dalla Berlino Ovest e la Berlino Est si riuniva nei pressi del muro per ascoltarlo.
Quello di Bowie non è un invito alla lettura, non è una lista compilativa. David Bowie di certo non invitava a far cose: Bowie, utilizzando quel brutto verbo di cui tutti ultimamente abusiamo, influenzava e influenza: nella maniera più autentica, però.