Questa rubrica racconta la campagna elettorale americana in vista del voto del 3 novembre. A questo link le puntate precedenti.
Per riassumere più di un anno di campagna elettorale non basterebbe un articolo, ma è necessario trarre le conclusioni di quella che è stata senza dubbio la corsa alle presidenziali più problematica della storia recente statunitense. Un percorso che è iniziato nell’estate 2019 e che ha visto più di venti candidati democratici combattersi all’ultimo sangue per contendersi la nomination per sfidare Trump. Una nomina che molti avrebbero voluto, in primis Bernie Sanders che, esattamente come quattro anni prima, è stato vittima sacrificale di logiche di partito che l’hanno costretto nella giornata elettorale di primarie più importante, il super Tuesday, a competere contro un Joe Biden forte degli endorsement di gran parte dei candidati. Biden, grazie all’aiuto di Elizabeth Warren, è riuscito non solo a ritornare in gioco dopo i primi deludenti risultati in Iowa e New Hampshire, ma anche a ricevere una nomination che fino a qualche settimana prima era considerata oramai improbabile.
Joe Biden l’empatico
Sin dall’inizio della sua campagna era facile rendersi conto che non si aveva a che fare con lo stesso carismatico vicepresidente dell’amministrazione Obama. Stanco, poco lucido e a tratti confusionario è innegabile che gli ultimi quattro anni abbiano lasciato un solco profondo nelle capacità dell’ex vicepresidente. Le continue gaffe e un programma politico poco chiaro l’hanno reso in pochi mesi sfortunato protagonista di numerosi meme e video virali. Tuttavia, la missione di Biden è stata considerata da lui stesso una “battaglia per l’anima della nazione”. Ma come già spiegato non era affatto una certezza che sarebbe arrivato alla nomination.
Tralasciando le difficoltà durante le primarie, la principale dote che tutti hanno riconosciuto a Biden e su cui lui stesso ha deciso di basare la sua campagna elettorale è l’empatia. Caratteristica che lo stesso discorso di endorsement della ex first lady Michelle Obama, uno dei più seguiti della Convention democratica, ha tentato di sottolineare. Ma, nonostante sia coerente con la sua storia personale, caratterizzata da lutti e gravi sfide, in tempi normali questa caratteristica non si trova di solito tra le più rilevanti quando si tratta di eleggere un presidente. Durante una pandemia invece lo è. È stato proprio il carattere umano ed empatico di Biden a concedergli la nomination.
Tuttavia, come ha avuto premura di specificare la stessa Michelle Obama, Joe Biden non è il candidato perfetto. Nei suoi 44 anni di attività politica l’ex vicepresidente si è spesso trovato a prendere decisioni difficili e che oggi potrebbero essere impopolari soprattutto per la base afroamericana di elettori, che in South Carolina gli ha concesso di risorgere durante la corsa delle primarie. Da buon neocon nel 1994 scrisse e fece approvare la una Crime Bill totalmente incoerente con quello che professa oggi. Una legge che nel corso degli anni ’90 e negli anni ’00 ha favorito incarcerazioni di massa, grandi finanziamenti al sistema penitenziario statunitense e un’approccio alla criminalità che negli anni ha avuto modo di creare indirettamente procedure inumane come la stop and frisk. Queste politiche hanno creato danni enormi alla comunità afroamericana, che oggi, quasi ad essere uno scherzo del destino, si trova ad essere il perno su cui si basa la forza politica dell’ex vicepresidente.
A migliorare la sua immagine ci hanno pensato, prima, Barack Obama, per il qualeha servito otto anni come vicepresidente, e poi Kamala Harris, con cui, nel caso dovesse venire eletto, governerà da gennaio 2021. Tuttavia, anche in questo caso la scelta della vicepresidente è apparsa a molti una scelta controversa, sia a causa del fatto che la stessa Harris avesse evidenziato il passato di Biden durante un infiammato dibattito delle primarie, sia per le scelte della Harris quando era procuratrice della California. Dopo la sua candidatura infatti diversi report hanno dimostrato che i provvedimenti della Harris non fossero in realtà così progressisti come si pensava fossero.
Oltre ad aver combattuto con le unghie e con i denti per sostenere le condanne ingiuste che erano state ottenute attraverso varie forme di cattiva condotta, che includevano la manomissione delle prove, false testimonianze e la soppressione di informazioni cruciali da parte dei pubblici ministeri, Kamala in passato ha rifiutato di prendere posizione sulla Proposition 47, un’iniziativa approvata dagli elettori, che ha ridotto alcuni crimini di basso livello a reati minori. Condannando di conseguenza migliaia di giovani afroamericani al carcere anche per possesso di piccole quantità di droghe leggere.
Nonostante questi problemi sembra che la situazione sia ottima per Joe Biden che, stando agli ultimi sondaggi, si trova in netto vantaggio sia a livello nazionale sia nella conta dei grandi elettori. Nel caso venga eletto non dovrà dimenticare il grande apporto che la comunità afroamericana ha portato alla sua campagna.
Donald Trump il caotico
Se non ci fosse stata la pandemia Donald Trump avrebbe vinto facilmente le presidenziali del 2020. È necessario fare questa premessa prima di addentrarsi nel collasso di uno dei presidenti più caotici e demonizzati della storia statunitense. Il rapporto del presidente con i media, sin dalla sua candidatura nel 2016, è stata una guerra fatta di colpi bassi e esagerazioni da ambo le parti. Partendo dal fantasma del russiagate fino ad arrivare alla non dimostrata, ma non per questo bloccata da twitter, storia degli insulti ai veterani morti in Normandia. Proprio il continuo scontro con i mainstream media ha aiutato il Presidente a creare nel corso degli anni, insieme alla leale Fox News, una costellazione di canali di informazione secondari, nascosti, che con un misto di reporter capaci, agitatori di folle e teorie del complotto becere molto vicine all’estrema destra, sono riusciti a trasformare buona parte dell’elettorato del 2016, in un potenziale esercito personale pronto ad armarsi in ogni momento.
Tuttavia l’amministrazione di Trump, prima della venuta del Covid, non è stata terribile come ci eravamo abituati a pensare 4 anni fa. Con qualche, seppur confuso, successo in politica estera, un’economia in forte crescita, la riscrittura del Nafta, che in molti hanno considerato molto vantaggiosa, un’ottima riforma penitenziaria con il First Step Act, molti si sono stupiti, dal momento che l’8 novembre 2016, quando Trump venne eletto, in tanti erano pronti a giurare l’imminente apocalisse nucleare. Nonostante questo, le modalità di comunicazione del presidente hanno fatto sì che i suoi toni oscurassero completamente qualsiasi successo politico. Tuttavia, nonostante le affermazioni poco professionali e in alcuni casi assurde di Trump, in molti erano fiduciosi del suo pugno duro nei confronti della Cina e delle sue politiche interne. Se si fosse votato a gennaio sicuramente Trump avrebbe vinto.
Invece si vota a novembre e in mezzo c’è stato il Covid.
È ancora presto per stimare il danno che a livello mondiale questa pandemia ha causato e continuerà a causare per molti anni a venire e, nonostante la maggior parte dei leader nazionali abbia fatto molta fatica a gestire il virus, è bene dire che Trump ha deciso di optare per un suicidio politico. Mantenere compostezza, evitare promesse false e dimostrare serietà dovrebbero essere le basi da cui partire per affrontare una crisi nazionale, ma Trump ha sapientemente evitato di fare ognuna di queste cose. Nonostante abbia ragione quando dice che il virus non è stata colpa sua, sicuramente è responsabile della gestione sconsiderata.
Il tre novembre osserveremo il paese che ha rappresentato il potere come nessun altro nel corso della storia umana, esser conteso da due settuagenari probabilmente inadatti per i problemi che si affacciano all’orizzonte, e con un misto di cinismo e pessimismo non ci resta che dire: “che vinca il migliore!”