Del: 16 Novembre 2020 Di: Carlo Codini Commenti: 0
Omicidio Manganes: quando il libero giornalismo è reato capitale

Appena una settimana dopo la Giornata internazionale voluta dall’ONU per la fine dell’impunità dei crimini contro i giornalisti, dalle Filippine arriva la notizia che un giornalista è stato ucciso, l’ennesimo. Già perché nel paese del Sudest Asiatico, immerso nelle acque del Pacifico Occidentale, solo tra il 2018 e il 2019 ne sono stati assassinati ben 14. E si tratta di un territorio da tempo ai primi posti anche nel Global Impunity Index (addirittura al primo posto nel triennio 2017-2019), una classifica redatta annualmente dal Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) con sede a New York che misura quanto gli omicidi dei giornalisti restano impuniti.

Questa volta, a fare le spese di una situazione drammatica che, dopo l’ascesa alla presidenza nel 2016 del leader del PDP Laban, Rodrigo Duterte, è peggiorata drasticamente per quel che riguarda la libertà di stampa (le Filippine sono a riguardo al 134° posto nell’ultima classifica stilata da Reporters without borders), è stato Virgilio Manganes. L’uomo, esponente della Nujp (Unione nazionale giornalisti filippini), lavorava per una stazione radio nella provincia settentrionale di Pangasinan ed era già scampato una volta a un tentativo di omicidio.

Virgilio è il diciottesimo giornalista filippino assassinato durante l’amministrazione Duterte e il 190° dal 1986.

Un Presidente, Duterte, che nel 2016, dopo aver vinto le elezioni, rispondendo a una domanda su cosa si potesse fare di fronte alla piaga dell’uccisione di giornalisti, pochi giorni dopo che un reporter di Manila era stato assassinato, commentò che gli omicidi di giornalisti sono a volte giustificati, se il reporter “ha fatto qualcosa di sbagliato”, dal momento che «La maggior parte di quelli che vengono uccisi, a essere franchi, ha fatto qualcosa. Nessuno ti uccide se non hai fatto qualcosa di sbagliato».

E in quell’occasione, riferendosi a un altro giornalista ucciso nel 2003 a Davao, Jun Pala, Duterte aggiunse: «Era un uomo marcio. Se l’è meritato». Davanti a simili parole pare fortunata la sorte della giornalista filippina Maria Ressa, responsabile del sito di news Rappler molto critico nei confronti del Governo, che nel 2019 se l’è cavata con un semplice arresto per diffamazione.

Negli ultimi dieci anni 881 giornalisti sono stati uccisi nel mondo. Ma in circa la metà dei casi si è trattato di morte in zona di guerra. Nelle Filippine invece la morte arriva senza che vi sia guerra. E forse è anche peggio perché in questi casi, quasi sempre, il giornalista viene ucciso in quanto tale, per le sue parole scomode contro gruppi criminali o di potere.

È solo in apparenza un paradosso che in uno stato segnato da povertà, violenza diffusa e corruzione, e che perciò avrebbe particolarmente bisogno di una stampa libera e coraggiosa, il mestiere del giornalista sia così difficile. In realtà, proprio questi fattori concorrono a spiegare tante morti e anche l’indifferenza del potere davanti alla situazione. Tuttavia, e questo sta cercando di fare l’Unione dei giornalisti filippini, i delitti possono essere anche l’occasione per sensibilizzare la società e innescare così processi di cambiamento. Un po’ come è avvenuto negli ultimi decenni, ad esempio in Sicilia, dove dopo alcuni omicidi mafiosi di giornalisti e non solo, il contesto ha scelto di cambiare, almeno in parte, facendo sì che le voci di denuncia non vengano più soffocate.

Carlo Codini
Nato nel 2000, sono uno studente di lettere. Appassionato anche di storia e filosofia, non mi nego mai letture e approfondimenti in tali ambiti, convinto che la varietà sia ricchezza, sempre.

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