Anche questo lunghissimo 2020 sta per concludersi e la redazione di Vulcano Statale ha preparato una lista dei 10 film più “vulcanici” del 2020!
A cura di Andrea Marcianò e Federico Metri.
Se dovessimo riassumere il 2020 con un titolo cinematografico sarebbe: Contagion, di Steven Soderbergh. Scontato forse, ma azzeccato; perché il cinema e l’intero mondo dello spettacolo, come ben sappiamo, hanno dovuto pagare e non poco i costi della pandemia.
La situazione a dir poco surreale ci ha costretti per quasi tutto l’anno a rinunciare alla bella sala e a contemplare i film sui nostri schermi casalinghi.
Questa lista conterrà quindi film che principalmente sono disponibili nei diversi portali streaming ad abbonamento o a pagamento; tra questi spiccano Netflix e Prime Video che sopra tutti sono riusciti a inserire nei loro cataloghi produzioni cinematografiche autoprodotte e film destinati originariamente alla sala.
DISCLAIMER: questa è una lista dei dieci film più vulcanici secondo la redazione, non è una classifica e l’ordine è casuale. Inoltre le pellicole sono state scelte su un criterio cronologico che coincide con la loro data d’uscita in Italia; per questo motivo alcuni film potrebbero essere in realtà accreditati agli anni scorsi.
Sto pensando di finirla qui (I’m thinking of ending things) (Charlie Kaufmann)
Film come Essere John Malkovic o Eternal sunshine of the spotless mind non possono essere replicati e superati, ma Charlie Kaufman non si arrende e con I’m thinking of ending this, di cui è sceneggiatore e anche regista, porta avanti la sua idea di cinema e regala al pubblico di Netflix un film pregno di dialoghi, filosofia e riflessioni interiori.
Lucy e Jake sono fidanzati da poche settimane e il loro rapporto si sta ancora costruendo, ma decidono comunque di andare a trovare i genitori di lui. Già dal viaggio in macchina entriamo nel flusso di coscienza della ragazza che alterna momenti di confronto con il compagno a momenti in cui dubita interiormente delle scelte che ha fatto, dei dubbi che non le permettono di aprirsi completamente.
Se già l’inizio provoca sensazioni contrastanti e surreali, l’arrivo dai genitori e le stranezze che si susseguono portano il film a confondere lo spettatore, a fargli porre continue domande su quello che sta succedendo e a domandarsi come possa finire la storia. Il film è un viaggio in cui è il tempo a viaggiare attraverso i protagonisti, con un finale che cambia radicalmente la prospettiva adottata fino all’ultima parte e che lascia spiazzati.
Mank (David Fincher)
Netflix e David Fincher ci trasportano indietro di cent’anni, in un’America spezzata dalla crisi del ‘29, in una Hollywood luccicante e piena di produzioni in corso.
Mank è la storia di un uomo, Herman Mankiewicz, chiamato a scrivere un film, l’ennesima sceneggiatura della sua vita, ma questa volta il progetto sembra più importante del solito: un ragazzo prodigio di nome Orson Welles sarà il regista e ha solo novanta giorni per terminarlo. Il film si chiamerà Quarto potere, uscirà nel 1941, sarà uno dei film più rivoluzionari della storia del cinema e Fincher racconta tutto ciò che viene prima, la genesi, il processo creativo e i problemi durante la stesura.
Mank e Quarto potere sono sicuramente collegati, il film di Orson Welles è molto presente (bianco e nero, atmosfera e luci soffuse, dissolvenze tra due scene, continui sbalzi temporali), chi l’ha visto apprezza i molti riferimenti e ha un senso di familiarità maggiore con ciò che il film di Fincher narra. La sua più grande forza è stata non legarsi troppo all’opera, ma concentrarsi sull’uomo dietro Quarto potere. Il risultato è un film globale accessibile a tutti, con la solita strepitosa regia di Fincher e le ottime prove attoriali di Gary Oldman, Amanda Seyfried e Lily Collins.
Favolacce (Damiano e Fabio D’Innocenzo)
Ultima fatica dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, Favolacce viene annunciato dal, premio di prim’ordine, Orso d’Argento per la sceneggiatura a Berlino; poi, per lo sconforto dei giovani registi, l’uscita al grande pubblico viene spostata sugli schermi di MioCinema (successivamente su Prime Video, senza noleggio).
La storia è ambientata in una qualsiasi quotidianità periferica italiana, ma non aspettatevi i soliti personaggi, piuttosto preparatevi al grande show disumano dei D’Innocenzo: i personaggi sono svestiti dalle loro maschere, le personalità uniche di ognuno dei protagonisti sono narrate con campi lunghi, distaccandosi così esteriormente dalla scena e, per questo, donando un’aria voyeuristica al complesso. L’idea dei registi sta proprio nel descrivere il mondo intorno a loro nella sua più nuda e cruda realtà, e dentro essa la loro ribellione giovanile rimbomba, anche non esitando un accenno di sovversivismo.
Favolacce sfiora il capolavoro non solo per il risultato in sé, ma anche e soprattutto per l’autorialità in via di sviluppo di due talenti tra i più interessanti in Italia.
Volevo nascondermi (Giorgio Diritti)
Forse titolo più azzeccato non poteva esistere. Perché Volevo nascondermi è tutto quello che Elio Germano, l’interpretazione migliore del 2020 nei panni di Antonio Ligabue (pittore e scultore naïf di metà Novecento), riesce a esprimere con le sue gesta, il suo linguaggio scoordinato dovuto all’apprendimento di tre lingue – italiano, tedesco e veneto – ma soprattutto è tutto ciò che si riesce a intendere con la sua schizofrenica espressione artistica.
È, infatti, un’artista a tutto tondo che riesce a riflettere il paesaggio che lui stesso vede e percepisce: bestie arrabbiate, tigri in fase di difesa, natura selvaggia e intricata. Tutto ciò che Ligabue dipinge o scolpisce è (forse qualche psicologo non converrà) la naturale espressione del suo inconscio; se vogliamo il frutto di un’esistenza fatta di scherni e rimproveri da parte dei “più grandi”.
Così abbiamo in scena un maestoso Germano, Orso d’Argento per miglior recitazione a Berlino, che interpreta un minuscolo e afflitto Ligabue, ritratto dalla regia di Giorgio Diritti; quest’ultima non osa neanche troppo, è infatti molto esterna e distante da un protagonista di spessore, che diventa così parte fondamentale di tutta l’architettura filmica.
Tenet (Christopher Nolan)
Il concetto che Christopher Nolan ha voluto maggiormente approfondire è quello del tempo. Dopo Memento, Inception e Interstellar il regista britannico torna nel 2020 a sperimentare il suo tema preferito con Tenet, uscito nelle sale a fine agosto in un momento difficile per le sale e disponibile in Home Video da dicembre. Nolan da sempre è molto polarizzante, lo ami o lo odi, ma con l’ultimo film ha diviso come non aveva mai fatto.
Il protagonista, John David Washington, è un agente della CIA chiamato a evitare una guerra imminente, ma il mondo di Tenet non va solo avanti, procede anche all’indietro, oggetti e persone possono essere invertite, viaggiare nel senso contrario rispetto a quello in cui siamo abituati e questa distorsione temporale regala un’esperienza cinematografica unica.
È il film più riuscito e bello di Nolan? No, ha diversi difetti di trama e risulta inutilmente complesso, ma è un film coraggioso, con una regia eccellente e una colonna sonora perfetta, che sperimenta tecniche visive mai viste, che riesce a regalare momenti di pura adrenalina e sincero stupore.
Christopher Nolan non smette di portare avanti la sua poetica cinematografica, Tenet va premiato soprattutto perché ha avuto il coraggio di uscire in sala in un momento in cui lo streaming permette un maggior introito, ma nel film manca la scintilla del miglior Nolan.
Diamanti grezzi (Uncut gems) (John E Benny Safdie)
L’ultimo film dei fratelli Safdie, prodotto da Martin Scorsese e Netflix, ha come punto focale un gioielliere di Manhattan con il vizio delle scommesse sportive e gravi problemi familiari. Nel momento in cui sta toccando il fondo riesce a entrare in possesso di un opale nero, una pietra etiope dal valore milionario che deve vendere a ogni costo per sistemare i debiti e tornare a respirare, anche se questo attirerà le persone sbagliate.
Diamanti grezzi è una corsa verso una speranza che non sembra arrivare mai, il viaggio caotico di un uomo disperato che deve lottare in primis contro se stesso e le sue debolezze. La sceneggiatura e la regia si amalgamano perfettamente e restituiscono un film nervoso, frenetico e teso, fino a un finale che chiude il cerchio tracciato fin dall’inizio della pellicola. Ciò che rende però il film di un livello superiore è l’impeccabile interpretazione di Adam Sandler. Già dai primi minuti riesce a far percepire le sue peculiarità, le sue preoccupazioni, la paura di morire da un momento all’altro.
Quello di Diamanti grezzi è sicuramente il personaggio più complesso che Sandler abbia mai interpretato, ma ciò che è riuscito a fare è renderlo un esempio iconico dell’uomo contemporaneo, pieno di dubbi, odio, ma anche una forte speranza. Un vero diamante grezzo.
The Lighthouse (Robert Eggers)
Se non suona noto il nome di questo film, tranquilli. È perché in Italia a tutti gli effetti non esiste. Secondo capolavoro, dopo The VVitch, per Robert Eggers, The lighthouse viene presentato a Cannes 2019 e poi sulla sua distribuzione, almeno nel Bel Paese, cala un silenzio tombale fatto di “ma” e “forse”.
Finisce che, Covid o meno, il film viene semplicemente rilasciato in Blu-ray durante questo agosto. Forse anche per questo, ma soprattutto per la sua particolare originalità, The Lighthouse rientra tranquillamente nella lista dei migliori film di quest’anno. Il binomio Willem Dafoe e Robert Pattinson non solo funziona, spaventa. La loro dinamica regge una sceneggiatura pesantissima e fittissima dal punto di vista culturale, citazionale e recitativo: Pattinson sicuramente come star prossima all’Oscar, Dafoe come insormontabile attore leggendario e imponente.
La sceneggiatura rivela in realtà un’opera viscerale, dove la dimensione dell’oceano profondo prende piede fino a mostrare non solo i mostri marini, ma anche quelli di un inconscio nero e perverso, ancestrale ma senza tempo, in cui il rischio di caderci dentro è sempre presente.
Il processo ai Chicago 7 (The Trial of the Chicago 7) (Aaron Sorkin)
Forse il finale può apparire scontato – anche inutilmente drammatico – ma Il processo ai Chicago 7 solo per la sua epopea produttiva, durata quasi quindici anni tra incertezze di budget e cast, merita almeno di essere menzionato.
Il film scritto e diretto da Aaron Sorkin riesce a descrivere l’altra faccia dell’America del ’69 invischiata in un caso dove, democrazia e giustizia, diventano paradossalmente le dirette nemiche del popolo. Non stupisce, quindi, la difficoltà dei produttori – tra cui anche Steven Spielberg – nel cercare di produrre un’opera estremamente critica ma anche estremamente riflessiva, nei suoi contenuti e nelle sue sottotrame. Il racconto è, tra le altre cose, spigliato e mai stancante; Sorkin intreccia i numerosi flashback in un frastagliato complesso di immagini in cui la narrazione va avanti da sola, in un fluire di pensieri generazionali e ben architettati anche da un cast stellare, Sacha Baron Cohen sopra tutti.
Sorry We Missed You (Ken Loach)
A 83 anni suonati il regista e sceneggiatore Ken Loach dirige un film capace di riflettere sulle gig economy e sui macabri effetti della sfrenata globalizzazione. Non è il primo, e non sarà nemmeno l’ultimo, esperimento legato al genere; già il precedente Io, Daniel Blake porta il regista a una riflessione lucida e apolitica, non cinica e neanche polemica.
Caratterizzato da un cast tutto sconosciuto, Loach riconferma, piuttosto, la sua tendenza radicale nel voler trasporre la semplice quotidianità, in un’ottica che non a caso ricorda il neorealismo italiano. Il protagonista, Ricky Turner (Kris Hitchen), è infatti un corriere precario, pagato a cottimo, la sua vita è alternata da drammi comuni e drammi personali. Loach quindi ci mostra una vita alienata, circuita da una realtà completamente generale e anonima, ma proprio per questo comune e diffusa. La città britannica che Ricky gira in lungo e in largo con il suo furgone, dove conosce i suoi protagonisti e con cui interagisce mostrandocene la stratificazione sociale, diventa così la città prototipica del mondo occidentale.
Se nel già citato Io, Daniel Blake la denuncia sociale è particolare e generazionale, in Sorry We Missed You è l’intero sistema a essere criticato; il film assume dunque tratti drammatici con picchi assoluti nel finale, dove il bagliore di speranza tuttavia si spegne flebilmente.
Da 5 bloods – come fratelli (Da 5 Bloods) (Spike Lee)
La questione razziale e quella sociale sono sempre state i focus principali dei film di Spike Lee e il suo ultimo progetto, ideato nel 2013 e uscito su Netflix il 12 Giugno 2020, è riuscito ad amplificare e dare ancora più voce a tutti i movimenti impegnati a difendere i diritti delle comunità afroamericane in un’America sempre meno inclusiva.
Il regista di BlacKkKlansman lo fa con un film incentrato sulla guerra del Vietnam, su quattro amici che tornano nei luoghi dove hanno combattuto insieme e perso un loro caro amico per recuperare un tesoro che hanno lasciato lì. Non è però il solito war movie, non è il solito percorso da un punto A a un punto B per recuperare l’oggetto X, è il viaggio di quattro uomini di colore che tornano ad affrontare un passato traumatico, pieno di discriminazioni e conseguenze tragiche.
Spike Lee non ha mai avuto paura di esporsi, di far sentire la sua voce e Da 5 bloods-come fratelli mette in luce tutto quello che di sbagliato è avvenuto negli anni ‘60 e tutti i problemi che il nuovo millennio ha ereditato. Il film non ha paura di essere diverso dagli altri, nei suoi 154 minuti cambia continuamente direzione, formato dell’immagine e della pellicola usata, sceglie di non ringiovanire i quattro veterani durante i flashback della guerra. L’unica cosa che resta intatta è l’idea, talmente potente che trascende il media cinematografico e continua per le strade e per le piazze di tutto il mondo.
Immagine di copertina realizzata da Valentina Testa.