Radici racconta fatti, personaggi e umori della storia della Prima Repubblica italiana, dal 1946 al 1994. A questo link trovate gli articoli precedenti.
È domenica 23 dicembre 1984, sono le 19:08, il treno Rapido 904 proveniente da Napoli e diretto a Milano, carico di persone che tornano nel proprio domicilio o che viaggiano per trascorrere le vacanze natalizie dai parenti, attraversa la Grande galleria dell’Appennino. Appena dopo la stazione di Vernio procede spedito, supera i 150 km/h quando, all’improvviso, un’esplosione fa scoperchiare il tetto della nona carrozza di seconda classe e fa tremare l’intero convoglio.
È una bomba, l’ennesima, di quel maledetto periodo.
La mente evoca subito un terribile ricordo non troppo lontano: la Strage dell’Italicus di dieci anni prima, anch’essa provocata da un ordigno posto su un treno che stava attraversando la Grande galleria dell’Appennino. Appena ci si rende conto di quello che è accaduto si chiamano i soccorsi, le notizie iniziano a filtrare, i familiari dei passeggeri accorrono alla stazione di Firenze per aver notizie; i sopravvissuti racconteranno di scene drammatiche in cui si vedeva «sangue dappertutto», un medico racconta di una «scena incredibile (…) al treno non siamo riusciti ad arrivare. Impossibile farlo. La nube tossica, una cappa di fumo, impediva di respirare, ributtava indietro. Abbiamo riprovato con le maschere antigas. Così, vicino al convoglio, sui binari, ho visto quattro corpi immobili. Due uomini e due donne. Una, giovane, era praticamente tagliata a metà dall’esplosione. Su una carrozza ho visto altri quattro cadaveri. C’era un bimbo».
Nell’attentato, che poi prese il nome di “Strage di Natale” morirono 16 persone, tra cui tre bambini, e ne rimasero ferite altre 267, su circa 700 passeggeri. Il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, nel discorso di fine anno alla nazione, che rimarrà uno dei più indelebili nella memoria collettiva, disse:
Risuonano nel mio animo ancora il pianto e le proteste dei parenti delle vittime dell’ultima strage, ignobile strage, in val di Sambro. Io mi chiedo questo: cinque stragi abbiamo avuto, tutte con lo stesso marchio di infamia ed i responsabili non sono ancora assicurati alla giustizia. I parenti delle vittime non chiedono, come qualcuno ha insinuato, vendetta, ma chiedono giustizia. Ed hanno ragione a chiedere giustizia.
Le indagini si indirizzarono verso la pista mafiosa, soprattutto perché un collaboratore di giustizia aveva detto agli inquirenti che la camorra stava progettando un attentato.
Nel 1985 vennero ritrovati congegni elettronici, detonatori e esplosivi compatibili con quelli utilizzati per l’attentato nella villa di Poggio San Lorenzo di proprietà del boss Pippo Calò, e nell’abitazione di un’altra persona con rapporti indiretti con l’esponente di spicco di Cosa Nostra. Nello stesso periodo in Sicilia il giudice Giovanni Falcone apriva i lavori del maxiprocesso contro i mafiosi e, per il pubblico ministero Pier Luigi Vigna, Pippo Calò avrebbe organizzato la Strage di Natale: «Con lo scopo pratico di distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato».
Iniziò così il processo per la strage.
La sentenza definitiva arrivò nel 1992, Pippo Calò e il suo braccio destro Guido Cercola furono condannati all’ergastolo per la strage; i camorristi invece furono condannati solo per aver acquistato e custodito l’esplosivo, mentre in un procedimento a parte un deputato neofascista del Movimento Sociale Italiano fu condannato per aver procurato l’esplosivo a quest’ultimi.
Per la prima volta nella storia del nostro Paese vennero identificati i mandanti di una strage, l’Unione dei familiari delle vittime della Strage del Rapido 904 sottolinearono l’importanza di una sentenza senza precedenti: «Per la prima volta appare in una sentenza passata in giudicato non soltanto il rapporto tra mafia e la politica, ma più precisamente fra la mafia ed un certo modo di fare politica, vale a dire il terrorismo».
Tuttavia si esprimevano anche alcune riserve: «Siamo partiti con la richiesta di nove condanne per strage e il procedimento penale termina con quattro condanne» esprimendo dubbi sulla motivazione finale «secondo cui la mafia volle la strage per distrarre l’attenzione delle forze dell’ordine dalla Sicilia appare riduttiva, incompleta». Secondo l’Associazione per trovare le motivazioni della terribile strage bisognava volgere lo sguardo anche verso ambienti della disciolta P2, la quale, secondo loro, aveva interesse a compierla per fare pressione sull’opinione pubblica e sul mondo politico.
Bibliografia:
«L’Unità», 24 dicembre 1984.
«Corriere della Sera», 24 dicembre 1984.
«Corriere della Sera», 25 novembre 1992.