Ultimamente alcune situazioni particolarmente drammatiche sono passate sottotraccia, complici l’emergenza Covid-19 che ha assorbito gran parte dell’attenzione mediatica e la distanza dall’Europa. Una di queste situazioni è quella del popolo dei Rohingya, definito dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres “uno dei popoli più discriminati del mondo, se non il più discriminato”.
Si tratta di una minoranza composta da un milione e mezzo di persone, stanziata nello stato di Rakhine, in Myanmar (o Birmania) a partire dal XV secolo.
I Rohingya sono musulmani sunniti e parlano una lingua del ceppo indoeuropeo simile a un dialetto parlato in Bangladesh, e proprio per queste differenze i rapporti con i cittadini myanmaresi non sono mai stati pacifici. Fin dall’indipendenza della Birmania dal Regno Unito nel 1948 i Rohingya non sono stati riconosciuti come minoranza e dal 1982 una legge nega loro la cittadinanza: di conseguenza, sono considerati apolidi, non hanno diritto di voto né libertà di movimento e l’accesso a servizi statali come sanità ed educazione è limitato. La discriminazione nei confronti di questo popolo si è trasformata negli ultimi anni in una vera e propria persecuzione: in una dichiarazione della United Nations Independent International Fact-Finding Mission on Myanmar del 2019 si afferma l’esistenza di un forte rischio di commissione di atti di genocidio e che il Myanmar sta fallendo nell’obbligo di prevenire il genocidio e di mettere in atto una legislazione punitiva di tale crimine.
Quella del Myanmar è una pulizia etnica, corredata da omicidi, arresti arbitrari, violenze sessuali e dalla distruzione delle abitazioni tramite incendi. Tuttavia alcuni dati sembrerebbero ricondurre la persecuzione non solo a differenze etniche ma anche ad interessi economici, come capita molto spesso. Le tensioni si sono acuite nel 2012 e, secondo un articolo del Guardian, questo non è un caso. I media si sono concentrati soprattutto sulle tensioni religiose ma, secondo l’articolo, in Myanmar i militari hanno sottratto vaste distese di terra ai piccoli proprietari sin dagli anni ’90, senza compenso, e dietro minaccia.
Questo land grabbing è continuato nel corso dei decenni ma si è ingigantito negli ultimi anni. Nel 2012, i terreni assegnati a grandi progetti erano aumentati del 170% tra il 2010 e il 2013. Nel 2012 la legge che disciplina i terreni è stata modificata per favorire le grandi acquisizioni aziendali. Di conseguenza, espellere i Rohingya dalla loro terra potrebbe essere un bene per gli affari futuri. Ed effettivamente, nel 2017 il governo ha stanziato 1.268.077 ettari nell’area Rohingya del Myanmar per lo sviluppo rurale aziendale; un incremento notevole se si considera la prima assegnazione di questo tipo avvenuta nel 2012, per 7.000 ettari. Una serie di dati che dovrebbero essere presi in considerazione, soprattutto perché si tratta di dinamiche comuni nei paesi poveri che, per attrarre gli investimenti fanno concessioni che si rivelano poi molto gravose per la popolazione locale.
La comunità internazionale non ha mai dedicato particolari attenzioni alla situazione dei Rohingya, ma un primo passo è stato fatto all’inizio di quest’anno dalla Corte internazionale di giustizia che, su istanza del Gambia, ha adottato delle misure provvisorie che impongono al Myanmar di prevenire il genocidio e prendere provvedimenti per conservare eventuali prove. Secondo il Gambia, il Myanmar avrebbe disatteso la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. Le misure adottate della Corte costituiscono un traguardo molto importante, perché si tratta sia di un primo riconoscimento di tale violazione che della base giuridica per eventuali sanzioni da parte degli stati della comunità internazionale.
Ma, come se non bastasse, le sofferenze dei Rohingya non si fermano alle violenze perpetrate dal Myanmar. In molti sono fuggiti nel vicino Bangladesh per scappare dalla pulizia etnica ma neanche quest’ultimo sembra avere intenzione di occuparsi dei Rohingya, complici la mancanza di sostegno da parte della comunità internazionale e la crescente ostilità della popolazione locale.
Nemmeno in Bangladesh i Rohingya ricevono un trattamento rispettoso dei diritti umani, ammassati nei campi profughi, anche perché lo stato non è firmatario della Convenzione di Ginevra relativa allo statuto dei rifugiati, che assicura standard di trattamento per questa categoria di persone tra cui rientrerebbero i Rohingya.
Notizia delle ultime settimane è che il Bangladesh ha intenzione di trasferire migliaia di Rohingya nell’isola di Bhasan Char, nel golfo del Bengala. Lo stato afferma di non aver obbligato nessuno a trasferirsi ma sembra che molti di loro siano stati convinti con incentivi, tra cui pagamenti in contanti. L’isola – che è emersa solo nel 2006 – non è mai stata abitata ed è spesso colpita da cicloni e inondazioni: rappresenterebbe quindi un luogo molto pericoloso, dove in molti verrebbero trasferiti contro la propria volontà.
Insomma il destino dei Rohingya sembra essere quello di un popolo dimenticato, che nessuno Stato vuole, ma la posizione della Corte internazionale di giustizia può rappresentare un punto di partenza per riportare l’attenzione sulla difficile – e terribile – condizione di questo popolo.