Del: 7 Gennaio 2021 Di: Riccardo Sozzi Commenti: 0

Netflix mette a segno un altro successo. Cobra Kai è la serie del momento: un cast eccezionale guidato dal magistrale William Zabka e Ralph Macchio, cui si affianca una trama teen efficacemente esagerata. I fan di Karate Kid non potevano chiedere niente di meglio.

Molti di noi non erano ancora nati quando, nel 1984, venne lanciato sul grande schermo il primo film che diede vita a un franchise destinato a diventare un cult del cinema anni ’80, The Karate Kid. Oggi, all’alba del 2021, la terza stagione della serie sequel della saga cinematografica, Cobra Kai, è in grado di rimescolare le emozioni di chi allora era ragazzo e di appassionare anche il pubblico giovanile, grazie a tanta ironia, commedia, momenti profondi e quell’impagabile effetto nostalgia che fa anche scendere qualche lacrima.

Cobra Kai nasce ufficialmente nel 2017, quando gli ideatori Josh Heald, Justin Hurwitz e Hayden Schlossberg decidono di dare il via al progetto basandosi sulla trasposizione ai giorni nostri dello stile e dell’epicità di Karate Kid. Se il progetto, messo in questi termini, poteva suscitare già da solo più di qualche perplessità, in suo soccorso era giunto un altro prodotto di successo della televisione, How I met your mother. Nel corso dell’ottava stagione, infatti, andata in onda negli Stati Uniti nel 2013, si assisteva ad una scena in cui Barney Stinson criticava aspramente Ralph Macchio (Daniel San), reo a suo dire di aver usurpato quello che era il “vero” Karate Kid secondo Barney, Johnny Lawrence (interpretato da William Zabka), campione proprio del Dojo Cobra Kai. Nessuno poteva immaginare che quattro anni dopo si sarebbe assistito ad un ritorno in pompa magna dei due protagonisti, ma d’altra parte l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire, e il risultato è stato sicuramente fedele alle aspettative. 

Trentaquattro anni dopo le vicende del primo film vediamo entrambi i protagonisti, Daniel LaRusso e Johnny Lawrence, alle prese con la loro vita: il primo uomo d’affari di successo, il secondo nel pieno di una crisi d’identità, tra scelte sbagliate e una vita privata gettata alle ortiche, colpa anche degli insegnamenti scellerati del suo pessimo maestro, quel John Kreese che ad un certo punto arrivò quasi a ucciderlo.

La trama si inserisce quindi in un contesto che si potrebbe definire classico: com’è ovvio, infatti, Johnny trova la forza per reagire riesumando il Dojo Cobra Kai e diventandone il Sensei, innescando per questo una serie di vicende che lo porteranno a scontrarsi con il vecchio rivale Daniel e a confrontarsi anche con l’odiato maestro Kreese. 

Arrivati a questo punto tuttavia ci si potrebbe legittimamente chiedere perché Cobra Kai, un sequel/spin-off di una saga cinematografica di trent’anni fa, che era stata prodotta per una piattaforma streaming minore come YouTube Premium, sia diventata ad oggi una delle serie più viste degli ultimi anni, elogiata dalla critica e osannata dal pubblico. La risposta si chiama Netflix. Bando a moralismi, la verità è sotto gli occhi di tutti.

Quando Netflix ha acquisito il prodotto e l’ha distribuito sulla propria piattaforma ad agosto 2020 Cobra Kai, che pure già aveva numeri d’alto livello, è letteralmente schizzata in testa alle classifiche, raggiungendo i consumatori di tutto il mondo. Una scommessa vincente che ha subito fatto sentire i suoi effetti sulla stessa produzione, con l’annuncio di una già programmata quarta stagione che ha fatto alzare all’inverosimile l’hype per la terza, uscita il 1 gennaio 2021. 

Ma allora Cobra Kai è solo una fortunata trovata commerciale? Anche se la dea fortuna di certo un ruolo l’ha avuto, non si può dire che Cobra Kai non meriti il suo successo. La serie, infatti, pone al centro della sua narrazione il legame intrinseco con la saga originale, i riferimenti non sono solo circostanziali sono al centro della storia, le battute hanno tutte un collegamento con i film e le citazioni sono sempre coerenti. Il fan service c’è, anche parecchio, ma è tutt’altro che buttato lì a caso, è una strizzata d’occhio allo spettatore, al quale inevitabilmente scapperà un sorriso. Soprattutto, la serie è un’immensa celebrazione di Pat Morita, il leggendario Maestro Miyagi, scomparso nel 2005, il cui ricordo viene ridestato di continuo, quasi a renderlo un vero personaggio che aiuta Daniel. 

Il problema maggiore che si potrebbe rilevare guardando Cobra Kai è tuttavia proprio questo suo punto di forza.

Essendo che la narrazione è molto al servizio del fan service, anche se questo rimane di buona fattura, alla lunga il tutto potrebbe risultare stucchevole, anche fastidioso, dato che la trama di fatto non presenta particolari colpi di scena, almeno non nel senso veramente catastrofico che ad oggi si intende il plot twist.

Rifacendosi, infatti, allo stile dei film di trent’anni fa si ha la sensazione che anche l’approccio narrativo risenta di un po’ di quel “vecchiume”. La diretta conseguenza è che i colpi di scena sono molto spesso telefonati, poche volte la sceneggiatura riesce a far saltare lo spettatore giù dalla poltrona, e anche in questo caso il carico emotivo non pareggia il percorso fatto per arrivarci.

L’esempio più lampante è la sotto-trama teen. Karate Kid era sostanzialmente un film per ragazzi, un cult generazionale che è evidente sia invecchiato non troppo bene. Cobra Kai quando deve affrontare il teen drama sembra volersi per forza di cose rifare a quel genere, e anche se è palese il tentativo di modernizzare il tutto, a volte questo fallisce: i personaggi che fanno cose un po’ fuori dalla realtà del 2020, il problema di linearità, la trama forse fin troppo coerente e timida nell’osare dove potrebbe. 


In questa seconda parte si cerca di contestualizzare quanto scritto con ciò che accade in scena. Ci saranno pertanto spoiler delle prime tre stagioni. 

Si parlava poco fa delle citazioni a Karate Kid, ebbene ci si potrebbe chiedere se sia necessario, per chi si approccia a Cobra Kai, guardare anche la saga principale. La risposta è però ambigua: da un lato si potrebbe dire che non sia necessario poiché la serie è ricca di flashback dai film che mostrano tutte quelle scene necessarie a comprendere gli eventi. D’altra parte non sarebbe corretto affermare che chi ha visto Karate Kid non parta avvantaggiato.

Nonostante i flashback, infatti, è innegabile che solo vedendo i film si riesca a cogliere buona parte delle citazioni che, più che far meglio comprendere, fanno sorridere. È questo, infatti, il senso di Cobra Kai: far sorridere, far sì che lo spettatore si abbandoni ai ricordi, come quando Johnny, alla domanda di Miguel se vuole che utilizzi un metodo particolare per pulire il Dojo, chiaro riferimento al “metti la cera, togli la cera” di Miyagi, risponde al suo allievo con un laconico «Nah, I don’t give a sh*t». Citazioni come questa si sprecano, sia nel rapporto tra Daniel e Johnny sia nel contesto teen che vede Miguel e Robby, il figlio di Johnny, contendersi Sam, figlia niente di meno che di Daniel. 

Il problema legato alla narrazione lineare di cui prima si collega però proprio a tutto questo schema citazionistico, che finisce inevitabilmente per rendere il tutto ridondante. Alcuni personaggi infatti hanno davanti a sé un percorso segnato praticamente fin dalle prime battute, come Hawk o Demitri, la cui vicenda è intuibile dopo pochissime scene, e la cui evoluzione è telefonata o telefonatissima, come il ripensamento di Hawk nel finale della terza stagione. Ma lo stesso discorso vale anche per Daniel e Johnny, protagonisti fra di loro di numerosi alti e bassi che però alla lunga stancano e che vengono messi in scena col chiaro intento di arrivare al finale della terza stagione, con la coscienza che quella scena, seppur emozionante, avrebbe potuto svolgersi anche diversi episodi prima.

La fortuna di Cobra Kai, che la fa uscire da queste sabbie mobili, è però ancora una volta l’abilità della sceneggiatura nel non appesantire queste problematiche, inserendo espedienti anche saggi:

ad esempio nella seconda stagione la reunion dei vecchi Cobras, Johnny e i suoi compagni di karate che avevamo visto nel primo Karate Kid, o l’inserimento nella terza stagione di Ali Mills, nel cui ruolo è tornata perfino Elisabeth Shue, a conferma di quanto bene sia uscita la studiata operazione nostalgia. Ali qui agisce come un vero e proprio deus ex machina, facendo da collante tra Daniel e Johnny, a quanto pare incapaci di trovare un punto d’appoggio comune se non in colei che fu l’oggetto del loro contenzioso originale. 

In ultimo va analizzato il contesto narrativo che esalta tutta l’ironica comicità di Cobra Kai, che dove può si lascia anche andare ad un vero e proprio tifo per gli anni ’80. Come non amare, infatti, la presenza di Dee Snider nel quinto episodio della terza stagione, con quel Wanna Rock che non a caso risveglia il piede di Miguel, o l’inizio della terza stagione e quel commento volutamente sarcastico «pensavo che il karate fosse morto negli anni ’80». L’ironia qui la fa da padrone, contribuendo ad alleggerire moltissimo la serie, che diventa anche divertente e spassosa.

Certo, non si può non notare che il tono in tal senso cambia parecchio tra le prime due stagioni, a produzione esclusivamente Sony, e la terza, colpa (o merito?) di Netflix, con la sensazione costante di aver perso leggermente quel tono da badass che avevamo amato nelle prime due stagioni. Ma c’è da dire che nonostante questo il prodotto rimane di spessore, e per questo merita tutta l’attenzione che gli è stata fin qui riservata, in attesa della quarta stagione. 

In conclusione, Cobra Kai rappresenta un vero e proprio tuffo nel passato. Chi era ragazzino nel 1984 e si era appassionato alla saga ha sicuramente trovato ciò che cercava, uno spin-off che gli facesse rivivere, per quei 20-30 minuti di ogni episodio, quelle sensazioni adolescenziali che hanno formato gli adulti attuali: il tutto condito dalla presenza di tutto il cast originale, che contribuisce a dare quel tocco di epicità a un genere che sembrava aver battuto il suo ultimo colpo proprio con Karate Kid. 

Per i giovani di oggi la serie rappresenta sicuramente uno svago interessante su più livelli: da un lato c’è l’elemento teen, dall’altro la profondità di alcuni dialoghi che esulano dal contesto più fanciullesco, e infine il karate, l’azione vera e propria, molto ben coordinata dall’eccellente lavoro degli stuntman, con virtuosismi registici qua e là veramente notevoli.  

Riccardo Sozzi
Da buon scienziato politico mi faccio sempre tante domande, troppe forse. Scrivo di tutto e di più, perché ogni storia merita di essere raccontata. γνῶθι σαυτόν

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