Del: 18 Gennaio 2021 Di: Angela Perego Commenti: 1
Da rileggere per la prima volta: La strada

La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa. Vecchie e spinose questioni si erano risolte in tenebre e nulla. L’ultimo esemplare di una data cosa si porta con sé la categoria. Spegne la luce e scompare.

C. McCarthy, La strada (Einaudi, Torino 2006)

È un mondo arido, muto, senza dio, quello descritto da Cormac McCarthy nel suo romanzo La strada, pubblicato nel 2006. Un mondo che è divenuto un ammasso di macerie a seguito di una catastrofe della quale sappiamo poco o nulla: una guerra nucleare, forse l’impatto con un asteroide. La terra non è più che un guscio vuoto, su cui si trascinano a stento gli spettri di quelli che un tempo erano chiamati uomini. Gli alberi anneriti e contorti sostano ai margini delle strade, stagliandosi contro un cielo vuoto. Tutto si è tramutato in cenere e lugubre silenzio.

In questo scenario post-apocalittico, un uomo e il proprio bambino, appartenenti ormai ad un esiguo numero di superstiti, decidono di incamminarsi verso sud, alla ricerca di un clima più mite.

Essi percorrono strade dissestate e deserte, nascosti sentieri di montagna, spingendo innanzi a fatica un carrello carico delle ultime provviste. Un telo di plastica per ripararsi dalla pioggia, un accendino con cui dare vita, nelle notti più fredde, a una fiamma che possa scaldarli, una pistola con due soli proiettili in canna per difendersi dai cattivi – perché quel mondo appassito è stato ormai ridotto all’osso, cosicché è possibile distinguere nettamente tra buoni e cattivi, tra vita e morte, tra sogno e realtà. Tutto ciò che vi era di superfluo è caduto nell’oblio, lasciando dietro di sé un nocciolo nudo di entità analizzabili: persino i nomi propri sono stati dimenticati, e dei protagonisti di questa allucinata narrazione conosciamo soltanto i ruoli, il fatto che si tratti di un uomo e di un bambino, di un padre e del proprio figlio, chiamati a fare i conti innanzitutto con i propri bisogni essenziali.

Pagina dopo pagina, abbiamo la possibilità di assistere a una quotidiana lotta per l’esistenza, come rannicchiati dietro gli occhi affamati e spauriti dell’uomo, il quale più di ogni altra cosa teme di cadere nelle mani di coloro che, pur di sopravvivere, hanno scelto di regredire allo status di bestie, arrivando a uccidere bambini e vecchi indifesi e a cibarsi delle loro carni. Nonostante la condizione difficile nella quale si trova, egli non ha intenzione di schierarsi né con coloro che hanno preferito la morte a una vita colma di paura e sofferenza, né con coloro che hanno fatto prevalere istinto ed egoismo bestiale sull’umanità che li caratterizzava.

La sua scelta appare bizzarra, folle, fuori posto; non sembra tuttavia dettata da una qualche credenza religiosa. Sono diversi i passaggi dai quali si evince che per l’uomo Dio è ormai morto: osservando un fiocco di neve squagliarsi lentamente, esso viene paragonato all’ultima ostia della cristianità; in un momento in cui, uscendo nella luce livida del giorno, egli ha l’impressione di trovarsi dinanzi all’assoluta verità del mondo, così la descrive: «Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L’oscurità implacabile. I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell’universo».

Continuando a lottare per la propria sopravvivenza senza tuttavia mettere in atto alcuna prevaricazione, l’uomo asseconda semplicemente un’intuizione secondo la quale autodistruzione ed egoismo non consentiranno mai all’umanità di ricominciare daccapo, ma anzi, potranno al più accelerarne l’estinzione.

Poiché l’uomo è, come da tempi antichissimi si è detto, animale sociale, non potranno che essere le relazioni che intrattiene con gli altri a permettergli di risollevarsi dalla disgrazia che si è su di lui abbattuta. Padre e figlio decidono dunque di restare uniti, di continuare a rispettare la vita degli altri uomini, anche a costo di patire la fame; il fuoco che essi portano con sé rappresenta questo prendersi cura l’uno dell’altro, questo incessante tentativo di rafforzare il legame che li unisce, e che permette loro di restare umani.

Lungo il cammino verso sud, il padre e il bambino si imbattono in un uomo scheletrico, piegato dall’età e vestito di stracci. Decidono di invitarlo a consumare con loro un pasto frugale, salvandolo da una morte che altrimenti lo avrebbe presto assalito, e in cambio il padre gli chiede di raccontare che cosa sia accaduto al mondo. «Sapevo che sarebbe successo», afferma l’anziano, riferendosi alla catastrofe abbattutasi sull’umanità e rivelando però di non essersi in alcun modo preparato ad affrontarla. «La gente si preparava sempre al domani», spiega, «A me sembrava assurdo. Il domani non si stava certo preparando per loro. Non sapeva neppure che esistessero».

Anche noi non abbiamo mai mancato di prepararci al domani, vivendo ogni fugace giornata con la veemenza di sempre, illudendoci che l’edificio da noi costruito fosse incrollabile. I mesi che stiamo vivendo hanno invece messo in luce quanto il nostro modo di vivere sia fragile, con quanta facilità il nostro mondo globalizzato, ipertecnologico e progredito, possa crollare come un castello di carte dinanzi al più flebile soffio di vento.

In questa difficile situazione, La strada di Cormac McCarthy ci prende per mano, insegnandoci a non rinnegare la catastrofe, bensì a esaminarla, poiché essa rappresenta il poderoso controspettacolo delle cose che cessano di esistere, e ci permette di comprendere come funzioni davvero il mondo, che cosa vi sia in esso di sbagliato. In un momento in cui l’emergenza sanitaria mette a repentaglio le nostre relazioni, La strada ci insegna, infine, che è proprio di esse che dobbiamo maggiormente prenderci cura, avendo fiducia nell’uomo e in ciò che, partendo da queste ultime, potrà forse ricostruire.

Angela Perego
Matricola presso la facoltà di Giurisprudenza, “da grande” non voglio fare l’avvocato. Nel tempo libero amo leggere e provare a fissare i miei pensieri sulla carta.

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