Del: 29 Gennaio 2021 Di: Riccardo Sozzi Commenti: 0

Poco più di un mese fa il Ministro di Stato danese Mette Frederiksen ha fatto le sue scuse per un esperimento sociale che nel 1951 sconvolse la vita di 22 bambini groenlandesi di etnia Inuit. Scuse che, tuttavia, possono essere soggette a più interpretazioni.

Prima che la Groenlandia cessasse di essere una colonia, nel 1953, la Danimarca aveva tentato già molti e diversi approcci per regolare il proprio rapporto coloniale con la popolazione indigena dell’isola più grande del mondo. Tutti, bene o male, non avevano avuto successo o l’avevano avuto solamente su di un piano parziale ed incompleto. Nel 1951 Copenaghen decise di provare con un esperimento sociale diverso e potenzialmente redditizio: portare in Danimarca bambini Inuit, insegnargli a vivere secondo i dettami culturali danesi per poi, una volta cresciuti, reintrodurli in Groenlandia così da favorire un avvicinamento culturale degli stessi Inuit ai valori danesi-europei, e renderli così veri cittadini del Regno.

Il progetto venne sposato anche dalla Croce Rossa e da Save the Children, ma non andò a buon fine, per non dire che fu un fallimento su tutta la linea. Ai bambini venne impedito di avere comunicazioni con la famiglia di origine, persero l’uso della loro lingua madre e, quando vennero rispediti in Groenlandia, vennero rigettati dagli Inuit, poiché ormai non erano più come loro, si erano “danesizzati”.

Molti di questi bambini subirono traumi psicologici atroci, vittime di un esperimento che li aveva resi di fatto estranei in casa propria. 

Riconosciuto il fallimento, tanto Save the Children quanto la Croce Rossa si scusarono, ma Copenaghen preferì il silenzio o una semplice omissione. Perché? Un Paese come la Danimarca era simbolo del welfare, della democrazia, era ispiratore di quel rispetto etico e morale legato, tra le altre cose, al fatto che fu il Paese che resse meglio all’occupazione della Germania nazionalsocialista del 1940; era un Paese i cui cittadini, per proteggere la propria comunità ebraica, indossarono tutti la stella di David rendendo di fatto impossibile la persecuzione di massa. Perché allora decise di non abbassarsi a chiedere scusa per un esperimento sociale fallito, che al netto di tutto era anche stato fatto in buona fede?

La risposta va ricercata nella intrinseca concezione di sé che è propria del popolo danese, ed è strettamente legata alla storia della Danimarca. Senza scendere in particolari, basti dire che l’impero coloniale danese fu per secoli uno dei più prolifici d’Europa e, grazie alla Groenlandia, uno dei più vasti del mondo, ma venne risucchiato dall’incubo geostrategico delle guerre napoleoniche, dalle quali uscì pesantemente sconfitto.

Questa dissoluzione prematura permise alla Danimarca di abbandonare l’intera retorica storico-coloniale, con la diretta conseguenza che l’impero danese scomparve dalla storiografia occidentale, tanto che ad oggi non viene neanche più studiato. La non-demonizzazione che ne seguì impedì la costruzione di un sentimento di colpevolezza per il passato coloniale. 

Il caso specifico si inserisce quindi in questo contesto socio-culturale, tant’è vero che anche in anni recenti le reazioni di molti politici danesi nei confronti del passato coloniale furono per così dire machiavelliche: il Ministro di Stato Lars Lokke Rasmussen nel 2010, parlando in riferimento al film Eksperimentet (L’esperimento), basato sulla storia dei 22 bambini, disse che «la storia non può essere cambiata. Il governo considera il periodo coloniale un capitolo chiuso della nostra storia comune. Dobbiamo essere felici del fatto che i tempi siano cambiati». Omissione.

Ma allora cosa è cambiato ora con Mette Frederiksen? Perché all’improvviso il Ministro di Stato ha deciso di rendere una dichiarazione pubblica con cui chiede scusa per quello spiacevole evento del proprio passato coloniale? Una valida chiave di lettura potrebbe essere quella legata non ad un improvviso cambio radicale di opinione, un rinsavimento morale corrispondente ai tempi in cui viviamo ma, piuttosto, una motivazione offerta dal Sistema Internazionale.

Negli ultimi anni la Groenlandia ha in più occasioni cercato di attivare nuove relazioni internazionali con l’unico obiettivo di ottenere l’indipendenza: ci ha provato con la Cina, ultimamente autrice di un massiccio intervento commerciale tanto in Groenlandia quanto nell’Artico, che ha costretto più volte sia Copenaghen che Washington a intervenire per bloccare queste attività commerciali sul nascere. Il recente interesse di Washington nell’Artico, prima con l’idea di comprare la Groenlandia (ne avevamo parlato qui), poi con la necessità dichiarata di aumentare drasticamente la propria presenza navale tra gli iceberg (di questo, invece, qui), ha probabilmente spaventato Copenaghen, che tra gli interessi geopolitici nell’Artico e il terrore insito in ogni Stato di perdere una porzione del suo territorio nazionale, ha ritenuto necessario quantomeno appiattire le tensioni con Nuuk.

Accettare  e riconoscere la propria responsabilità era infatti, forse, divenuto ormai inevitabile anche al netto dei tumulti legati al movimento Black Lives Matter (trovate qui una riflessione), che ha portato in tutto il mondo a una vera e propria guerra ideologica contro famosi personaggi con un passato di sfruttamento: in Italia ha visto protagonista Indro Montanelli  e in Groenlandia e Danimarca Hans Egede, missionario che, col suo arrivo a Nuuk nel 1721, fece ripartire di fatto il colonialismo danese sull’isola. 

Va anche tenuto in conto l’elemento legato alla Presidenza degli Stati Uniti. Donald Trump, con tutti i suoi limiti anche giudiziari, può essere considerato un soggetto benevolo nel contesto artico. Sotto la sua amministrazione, infatti, è stato posto in molteplici occasioni un importante freno all’espansionismo cinese, di cui ha giovato in primo luogo proprio la Danimarca, timorosa di dover affrontare il gigante asiatico da sola, con la Russia spettatrice. La nuova Presidenza Biden da questo punto di vista potrebbe suscitare più di qualche preoccupazione.

Meglio allora, in via precauzionale, limitare le tensioni già alte facendo un passo incontro al popolo groenlandese e limitando i campi in cui potrebbe evocare maggiori libertà, sulla base di una reprimenda coloniale. 

Questa interpretazione trova riscontro nella storia della geopolitica artica, segnata negli anni da diversi e costanti alti e bassi, che hanno visto durante la Guerra Fredda inasprire lo scontro tra grandi potenze, per poi congelarsi negli anni ’90 ed i primi anni 2000 e riprendere con costanza dopo il 2010: anni segnati dal vuoto di potere connesso all’ottenimento da parte della Groenlandia di un regime di autogoverno e dall’esplosione dell’interesse cinese per le risorse artiche. Non solo minerali, terre rare, ferro, idrocarburi, petrolio e uranio, ma anche pesce e proteine necessarie ad un paese che conta più di un miliardo di persone, in crescita. Le scuse di Frederiksen vanno a contestualizzarsi in questo clima, tutt’altro che disteso. 

L’importanza di chiedere scusa potrebbe, quindi, risiedere tanto nella volontà intrinsecamente etica di prendere le distanze in maniera definitiva da un passato oscuro, quanto nella volontà realistica di accomodare un significato morale alla razionalità imposta dal confronto tra grandi potenze nello scacchiere Artico. 

Riccardo Sozzi
Da buon scienziato politico mi faccio sempre tante domande, troppe forse. Scrivo di tutto e di più, perché ogni storia merita di essere raccontata. γνῶθι σαυτόν

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