Del: 1 Gennaio 2021 Di: Beatrice Balbinot Commenti: 0

Il Quoziente Intellettivo umano si sta abbassando. Lapidaria in tutta la sua severa verità, l’affermazione mette sicuramente una certa ansia: sapere che il nostro cervello si sta atrofizzando sempre più non è certo l’augurio che si potrebbe desiderare per questo 2021. Eppure, che ci piaccia o no, dati scientifici corroborati dimostrano senza lasciare possibilità di obiezione come nel corso degli ultimi vent’anni l’intelletto umano abbia progressivamente perso i punti bonus che aveva accumulato nelle decadi precedenti. A riassumere il risultato degli studi condotti è Christope Clavè, pensatore francese presidente della società di investimenti EGMA e insegnante di “stratégie et management”, che affida ad un post su Facebook, riportato tra gli altri anche da ItaliaOggi, la perturbante notizia dell’abbassamento del Q.I. 

Il Quoziente d’Intelligenza (QI) medio della popolazione mondiale è in continuo aumento (effetto Flynn). Questo almeno dal secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’90. Da allora il QI è invece in diminuzione…È l’inversione dell’Effetto Flynn” , comincia Clavè. A proposito di questa inversione di tendenza nello sviluppo del quoziente intellettivo ha scritto anche la rivista Focus, sottolineando come sia in realtà molto difficile riuscire a determinare in maniera certa il valore delle capacità intellettive e avanzando anche l’ipotesi che il test per il calcolo del Q.I. sia ormai superato. L’argomento, molto complesso e dibattuto, può essere considerato sotto molteplici angolature ed è forse impossibile riuscire a stabilire univocamente se questa flessione del Q.I. sia davvero presente e, se sì, a cosa sia imputabile. 

L’ipotesi di Clavè, che appartiene alla corrente di pensiero che accetta i dati sull’abbassamento del quoziente intellettivo, individua una delle cause che hanno scatenato questa pericolosa deriva dell’intelligenza in quello che siamo ormai troppo abituati a considerare solo un accessorio del pensiero, un mezzo, quando in realtà ne è un pilastro imprescindibile: il linguaggio

La tesi del pensatore francese è supportata dagli studi dello psicologo Jean Piaget (1896-1980), secondo il quale è impossibile isolare la capacità linguistica dall’intelligenza. Anche in questo caso gli studi sull’argomento si sovrappongono in posizioni spesso contrastanti, per cui, ad esempio, lo studioso Vygotskij, coevo di Piaget, muove dalla premessa che linguaggio e pensiero abbiano radici differenti e che il collegamento tra le due dimensioni non sia automatico. A ben vedere però l’ipotesi di Piaget, ripresa appunto nel post di Clavè, ha il merito di essere una suggestiva possibilità che ha trovato applicazione anche nella letteratura. Gli amanti degli scenari dispotici ricorderanno bene, come anche sottolinea Clavè, che nel mondo dominato dal Grande Fratello di Orwell il primo mezzo di coercizione del pensiero consisteva proprio nell’eliminazione del lessico sovversivo. Se non si può esprimere un concetto, quel concetto non esiste. 

Secondo Clavè l’impoverimento del vocabolario che quotidianamente utilizziamo per comunicare ha comportato l’ammollimento dell’intelletto su pochi e semplici schemi d’espressione, che si ripetono in ogni situazione, senza permettere divagazioni.

Ecco dunque che miliardi di anni d’evoluzione vengono vanificati da una pigrizia linguistica dilagante, un deleterio indebolimento della parola che si riflette inevitabilmente sulla possibilità di formulare un pensiero complesso. Come sottolinea Clavé “eliminare la parola ‘signorina’ (ormai desueta) non vuol dire solo rinunciare all’estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l’idea che tra una bambina e una donna non ci siano fasi intermedie”, ossia diminuisce la possibilità di individuare le sfumature del processo di crescita di un essere umano di sesso femminile. La tendenza ad utilizzare termini semplificati mitiga la vivezza dei concetti, con il rischio di rimuoverli totalmente non solo e non tanto dal nostro vocabolario, quanto dalla nostra immaginazione.

A questo punto è bene fare una precisazione di natura didattica, ma che è necessaria per considerare dalla corretta prospettiva i concetti enunciati in questo articolo. Quando si parla di lingue il discorso è complesso e sarebbe impossibile riassumere in poche righe tutte le giuste premesse per affrontare l’argomento. Tuttavia, senza cedere a purismi accademici, è giusto sottolineare un concetto fondamentale: la lingua in quanto istituzione non deve essere confusa con l’uso particolare che ne fanno i parlanti. Il fatto che molti non siano più in grado di utilizzare un lessico completo e proprio non significa necessariamente che la lingua si impoverisca.

Tuttalpiù è la capacità d’espressione dei singoli parlanti a risultare inadeguata e dunque, nell’ottica di Clavé, è l’individuo a non avere più la facoltà di formulare sfumature di pensiero variegate, sebbene la sua lingua, qualsiasi essa sia, glielo permetta. Dunque quando si afferma che “la lingua si sta impoverendo”, si compie involontariamente un’imprecisione terminologica: sono i singoli soggetti a non saper utilizzare in tutte le sue potenzialità la loro varietà linguistica, non è la lingua ad essere inadeguata. Le possibili ragioni di questo impoverimento nel lessico dei parlanti andranno dunque ricercate nelle loro abitudini socio-culturali.

Il primo imputato per questo crimine contro la varietà d’espressione è probabilmente l’utilizzo sfrenato della tecnologia.

Impossibile negare che la comunicazione digitale abbia apportato delle variazioni importanti nelle realizzazioni lessicali degli utenti: la messaggistica, composta in gran parte da abbreviazioni e faccine, è diventata un’abitudine quasi irrinunciabile nel mondo contemporaneo, portando con sé una serie di conseguenze deleterie per la completezza e la difficoltà del lessico utilizzato. Le abitudini espressive legate alla conversazione via sms stanno sempre di più conquistando lo spazio dello scambio orale, introducendo la loro irriverente semplificazione lessicale. 

Dare la colpa alla tecnologia, in tutte le sue declinazioni, non solo rispetto ai cellulari, sembra però un motto ormai ridondante e tutto sommato neanche del tutto pertinente. Il 2020 appena passato ha dimostrato quanto i telefoni, le videochiamate, i computer e tutti i sistemi di messaggistica istantanea, abbiano permesso un ponte tra persone irrimediabilmente distanti a causa della pandemia. Prima di lamentarci di quanto male ci abbia fatto l’evoluzione tecnologica, guardiamoci intorno e chiediamoci come sarebbe la nostra vita senza i comodi apparecchi digitali. Piuttosto è l’utilizzo che l’uomo ne fa a rendere la tecnologia una potenziale nemica dell’intelligenza: di certo non è colpa del nostro telefono se buona parte degli utenti preferisce passare il suo tempo su Instagram piuttosto che ampliare le sue conoscenze lessicali leggendo un buon libro. 

Accantonato il primo imputato, passiamo al secondo.

L’ipotesi questa volta coinvolge un colpevole forse un po’ inaspettato, che sempre di più sta entrando nel lessico e nelle forme d’espressione degli idiomi mondiali: l’inglese. O meglio: il prestigio che all’inglese viene attribuito.

Questo prestigio spinge i parlanti europei ad adottare sempre di più termini appartenenti al vocabolario d’oltremanica, eliminando progressivamente la possibilità di esprimere le sfumature di significato legate ai termini del loro dizionario. Naturalmente ogni lingua è ugualmente potente, cioè ha la possibilità di esprimere tutti i concetti, ma nel momento in cui una singola parola straniera entra nell’uso, soprattutto se gode del prestigio dell’inglese, rischia di annebbiare un insieme di sinonimi autoctoni, e dunque le loro gradazioni concettuali, e provocare un indebolimento nella completezza lessicale di alcuni soggetti.

Di nuovo il funesto 2020 appena passato ci offre un comodo esempio di ciò: i termini della pandemia (lockdown, smart-working, eurobond, spillover e altri) sono tutti parole inglesi, entrate nelle lingue europee e ormai diventate, ahinoi, molto comuni. Niente di male in un prestito linguistico, che è un fatto culturale impossibile da evitare, ma nell’ottica di un processo di infiacchimento lessicale diventa un problema. L’uso di “lockdown” schiaccia termini come “confinamento”, “isolamento”, “blocco”, eliminandoli magari dalle capacità espressive di alcuni parlanti.

E se nessuna parola è uguale in tutto e per tutto ad un’altra, significa che le sfumature concettuali legate ai termini sopra indicati inevitabilmente svaniscono, si perdono, concentrate dentro il più sintetico “lockdown”. Il problema è stato individuato anche da un intervento dell’Accademia della Crusca che sottolinea come la presenza di “modismi” stranieri, termini che vanno particolarmente di moda in un dato periodo, nei mezzi di comunicazione di massa possa limitare l’utilizzo di sinonimi. La colpa ancora una volta è della pigrizia dei parlanti i quali, invece di servirsi di tutta la varietà lessicale permessa dalla loro lingua, preferiscono sintonizzarsi sulla parola più utilizzata, più prestigiosa, più di moda.

Con questo non si vuole dire che non sia mai possibile utilizzare i prestiti linguistici ma, al fine di mantenere intatta la possibilità di spaziare entro tutte le sfumature di un concetto, sarebbe auspicabile che i parlanti si sforzassero di non soffocare i sinonimi della loro lingua con un termine straniero, per quanto più prestigioso. 

Beatrice Balbinot
Mi chiamo Beatrice, ma preferisco Bea. Amo scrivere, dire la mia, avere ragione e mangiare tanti macarons.

Commenta