
È il 1886, 31 dicembre. Nel suo appartamento di palazzo Zuccari, affacciato sulla bellissima Piazza di Spagna, il conte Andrea Sperelli aspetta ansioso l’arrivo della sua antica amante, Elena Muti. Lo assilla un dubbio angosciante: “Se ella non venisse?”.
Da quasi due anni il conte soffre la mancanza della meravigliosa Elena, una volta sua e poi misteriosamente partita alla volta dell’Inghilterra mettendo bruscamente fine alla loro travolgente passione e lasciando nella bocca di Andrea il sapore di baci impossibili da dimenticare. Nell’attesa esasperante dell’arrivo di Elena, davanti al suo caminetto, Andrea ritrova nella memoria il contatto con l’amante e condensa nel loro prossimo incontro tutte le sue speranze di rivivere i tanto agognati momenti di Piacere. Ma l’invitata è in ritardo: passano i minuti, l’angoscia cresce. “Se ella non venisse?”.
Lei verrà, ma il colloquio non sarà risolutivo come Andrea aveva sperato. L’antica fiamma, pur non essendosi spenta dopo due anni di separazione, è soffocata sotto il peso della nuova fede al dito di lei. Il vincolo matrimoniale non è affatto un limite invalicabile nella vanesia Roma aristocratica di fine secolo, ma Elena, almeno per ora, sembra decisa a restare fedele al suo impegno. Ella rimane poco nell’appartamento di palazzo Zuccari, il tempo necessario per far respirare ad Andrea il profumo di una passione che non vuole concedergli di nuovo, poi se ne va, abbandonando il conte Sperelli al dolore di un rifiuto, il secondo, dalla stessa donna.
Così Gabriele D’Annunzio presenta ai suoi lettori il protagonista indiscusso de Il Piacere, Andrea Sperelli, cogliendolo in un momento di fragilità, costretto a vaneggiare su un’antica relazione che sembra non poter essere ormai niente di più che un ricordo, ma che sarà in realtà il perno dell’intera vicenda. La devastazione, nel corpo e nell’anima, a cui Andrea è sottoposto ogni volta che le circostanze lo costringono alla lontananza da Elena sembra promettere al lettore una tormentata storia d’amore. Ma “amore” è un termine troppo nobile per definire la pulsione che muove ogni movimento del protagonista, edonista incurabile, instancabile cacciatore di Bellezza.
Andrea Sperelli è un esteta che ha fatto della ricerca del Piacere l’unico scopo della sua esistenza. Il Piacere è tutto ciò a cui il conte tende, un Piacere difficile da soddisfare, che si nutre di cambiamento, di poesia, di arte e di bellezze sempre nuove.
Così Andrea passa da amante in amante, da tradimento in tradimento, sguazzando nel vuoto di valori dell’aristocrazia romana di fine ‘800. Il possesso di Elena gli risulta la più alta forma del Piacere che tanto disperatamente persegue solo perché gli sfugge, perché, a differenza delle sue altre innumerevoli amanti, lei non è mai completamente sua. Così la ricerca del Piacere si identifica nella ricongiunzione fisica con Elena e la risoluzione di lei a non volersi concedere non è altro che un ostacolo che rende più appetibile il trofeo.
E chi, consapevolmente o meno, si intromette in questa malata corsa nel nome della sensualità ne rimane inevitabilmente schiacciato, sacrificio di un estetismo estremizzato che richiede qualche vittima. È il caso di Maria, una bellissima nobile senese poi trasferitasi a Roma, incontrata da Andrea mentre erano entrambi ospiti a Schifanoja, la villa in campagna della cugina di Sperelli.
Fin dal primo incontro l’immagine di Elena si impossessa della persona di Maria, permeandola e ravvivando il desiderio mai sopito di Andrea. Il conte arriva a percepire in Maria le forme dell’altra, la sua essenza, e spera di poter finalmente accedere a quel raffinato Piacere che Elena non voleva più concedergli. Anzi, dopo una lunga frequentazione con Maria, dopo attento esercizio della fantasia e costante impegno nel far rivivere i colori di Elena nella senese, le due donne separate non gli bastano più: Andrea si convince di essere oramai in presenza di una terza bellezza, nata dall’unione delle due amanti, un essere finalmente perfetto.
Nel suo inscalfibile bisogno estetico il conte non si accorge di operare un ossimoro rischioso, un tranello di cui lui stesso infine resterà vittima. Elena e Maria sono due donne completamente differenti, l’antitesi l’una dell’altra. Sensuale e libertina la prima, religiosissima e devota la seconda. Cercare l’unione delle due in un’unica immagine è un esercizio poetico allettante, ma che di fatto non può trovare realizzazione concreta. Resterà soltanto l’ombra di un Piacere inarrivabile, mai del tutto assaporato.
Nonostante la dura presa di distanza dall’amorale Roma aristocratica in cui si muovono i personaggi, operata dall’autore nella lettera all’amico Michetti che fa da prefazione al romanzo, è impossibile separare la figura di Andrea dall’immagine di D’Annunzio.
Le esperienze sensuali ed estetiche del conte Sperelli riprendono e trasfigurano nero su bianco le storie d’amore e di Piacere intrattenute dall’autore. Il punto di vista di Andrea, nella sua incurabile amoralità, rimane l’unico ammesso nell’intera vicenda, senza che mai venga messa in discussione la validità delle sue conclusioni: D’Annunzio promette al lettore il suo distacco etico dalla vanità materiale dei sentimenti trattati, ma solo per potervisi immergere ancora più affondo, raccontando e raccontandosi, protetto da quell’iniziale declamazione di alterità morale. D’Annunzio si dimostra un profondo conoscitore di quell’aristocrazia romana che lo aveva maternamente adottato, svelandone gli scandali e le esasperate vanità.
Così come il suo creatore, Andrea Sperelli mescola un convinto estetismo con il superomismo preso in prestito da Nietzsche, che gli arroga il diritto di giudicare l’intero mondo che lo circonda secondo le sue categorie di bellezza, ed escludendo dalla sua attenzione tutto ciò che non risponde agli standard, quel «grigio diluvio democratico» che, in realtà, è l’unico futuro possibile.
L’arroccamento aureo dell’aristocrazia romana ottocentesca così magistralmente rappresentato delle esperienze di Andrea, che rifiuta categoricamente il contatto con le ombre nere dei proletari e dei borghesi che vivono al di fuori della sua amata “Roma dei Papi”, è destinato a essere eliminato dalla storia, sempre più decisamente diretta verso un’apertura burrascosa tra le classi sociali. E allora ad Andrea non rimane altro che l’esercizio tanto assiduo quanto inutile delle sue aristocratiche categorie estetiche.
Come la superba vanità delle relazioni raccontate è nascosta dietro alle meravigliose architetture stilistiche del testo, che permettono alla poesia di entrare nella prosa e dimostrano una volta di più la maestria della penna dannunziana, così il decadente mondo aristocratico, sbriciolandosi sotto la spinta democratica, si ripara nella sua platinata e presunta superiorità edonistica, alla ricerca mai soddisfatta del Piacere.