Del: 29 Marzo 2021 Di: Erica Ravarelli Commenti: 0

È stato quasi un plebiscito quello che ha portato all’elezione del nuovo segretario del Pd Enrico Letta: l’assemblea del partito, virtualmente riunita il 14 marzo, gli ha conferito l’incarico con 860 voti a favore, 2 contrari e 4 astenuti. Il nome dell’ex premier che 7 anni fa fu vittima del fuoco amico renziano – chi non ricorda il famoso hashtag #enricostaisereno, a cui seguì dopo solo un mese il passaggio di consegne Letta-Renzi? – è iniziato a circolare non appena è diventato chiaro che le dimissioni di Nicola Zingaretti non erano trattabili. È stato un fulmine a ciel sereno quello che ha scombinato i piani di Letta, che dopo la caduta del suo governo aveva deciso di dedicarsi all’attività di insegnamento nella prestigiosa università parigina di Science Po e mai avrebbe pensato di tornare al Nazareno come segretario del partito.

Alla domanda di Fazio, che il giorno della sua elezione gli ha chiesto che cosa lo abbia spinto a sciogliere la riserva dicendo sì al Pd, Letta ha risposto «mi sono posto il problema di cambiare la politica italiana e fare in modo che il nostro possa tornare ad essere un Paese per giovani». E sono proprio i giovani i protagonisti di una proposta che Letta ha annunciato di voler promuovere durante il suo discorso di investitura. Insieme allo ius soli, al dialogo con altri partiti di centrosinistra (M5S compreso), alla parità di genere e alle riforme istituzionali, infatti, Letta ha rilanciato una battaglia di cui si era fatto portavoce nel 2019, riprendendo un’idea che da molti anni circolava nel dibattito politico italiano.

Si tratta di abbassare l’età minima richiesta per poter votare, di fatto permettendo anche a sedicenni e diciassettenni di dire la loro su questioni di politica locale, nazionale ed europea. 

«Non sono tutti Greta Thumberg», protestano alcuni, sostenendo che a sedici anni i ragazzi sono troppo immaturi e facilmente condizionabili per potersi esprimere in modo obiettivo su temi rilevanti come quelli di cui si occupa la classe dirigente. I più scettici, inoltre, sostengono che i sedicenni percepiscono la politica come qualcosa di distante da sé, e che, quindi, anche se dovessero acquisire il diritto di voto, il disinteresse prevarrebbe sulla volontà di far sentire la propria voce nelle urne. Su questo punto c’è da chiedersi quanta differenza possano fare due anni in più, ma il guaio dell’Italia è un altro, e in questo caso i numeri parlano più di mille parole: gli ultimi censimenti rivelano che i giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni sono solo 10,5 milioni circa, a fronte dei 13,8 milioni di over 65. Estendere il diritto di voto a sedicenni e diciassettenni (che in tutto sono circa 1,2 milioni) permetterebbe, quindi, di correggere parzialmente quello che è il naturale squilibrio demografico del paese più vecchio d’Europa. Alternative non ce ne sono, a meno che non si prenda in considerazione l’idea di revocare il diritto di voto agli ultra-settantenni; di certo la scelta giusta non può essere quella di ignorare il problema, perché ciò denota uno scarso interesse verso l’opinione dei più giovani, che di fatto incarnano il futuro del Paese.

La “tenaglia generazionale”, cioè la progressiva riduzione di under 30 rispetto agli over 60, andrà intensificandosi nei prossimi decenni. Qui in un grafico dell’istituto Cattaneo.

Va detto, inoltre, che la giusta attitudine di fronte al problema del disinteresse giovanile su temi politici è quella di chi accetta la sfida, mettendosi in discussione e provando a capire come farsi ascoltare dalle nuove generazioni. Al contrario, parlare del problema come se fosse irrisolvibile, definitivo o accettabile rivela rassegnazione o, peggio, ricorda l’argomento di chi, a inizio ‘900, affermava che gli analfabeti non potessero votare perché incapaci di comprendere le dinamiche politiche, usando questo pretesto per poter continuare a escludere gli interessi dei meno abbienti dall’agenda politica. Permettere a sedicenni e diciassettenni di votare, invece, potrebbe responsabilizzare non solo la classe dirigente, che sarebbe una volta per tutte costretta ad ascoltare le istanze delle nuove generazioni, ma anche i giovani stessi, incentivati a informarsi perché consapevoli che la loro opinione, finalmente, conta. Dall’altra parte c’è anche chi, come il senatore Mario Monti, bolla la proposta come demagogica, sostenendo che estendere il diritto di voto ai sedicenni non comporti un interessamento della politica alle istanze dei più giovani.

Quel che è certo è che questa proposta non può essere né liquidata in due parole, né accolta a cuor leggero: abbassare l’età minima di voto, argomenta in un’intervista a Huffington Post Italia il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, potrebbe avere delle conseguenze su altre norme dell’ordinamento, perché diventerebbe difficile affermare che un cittadino che è abbastanza maturo per votare non lo è per guidare un’auto o per assumersi le sue responsabilità in sede penale. Sarebbe necessario, insomma, «armonizzare l’intero sistema», tenendo ben presente tutti i possibili effetti che questo intervento potrebbe generare.

È innegabile, inoltre, che la riforma necessiti di provvedimenti paralleli che forniscano ai futuri elettori gli strumenti per comprendere il funzionamento delle istituzioni, tuttavia chi contesta l’assenza di tali provvedimenti probabilmente trascura il fatto che dall’anno scolastico corrente è stato inserito nelle scuole di ogni ordine e grado l’insegnamento obbligatorio di educazione civica. Le linee guida inviate dal Ministero dell’Istruzione a giugno dell’anno scorso prevedono che gli studenti dedichino 33 ore all’anno allo studio della Costituzione italiana e alla maturazione di una solida consapevolezza su temi come la sostenibilità ambientale e i rischi connessi all’uso dei social. Si tratta sicuramente di un passo avanti verso la formazione di un cittadino più vicino al decisore pubblico e più consapevole del suo ruolo nella società civile, anche se non si può affermare che l’effettivo coinvolgimento si raggiunga inserendo una materia in più (peraltro marginale, visto il tempo ad essa dedicato) nei programmi scolastici.

A conti fatti, dunque, la migliore soluzione sembra essere quella di inserire la proposta di Letta in un quadro di riforme sistematico e coerente, per evitare che una proposta potenzialmente buona si trasformi in quello che la sociologa Chiara Saraceno definisce parlando a Il Post «un balzo in avanti senza premesse».

Erica Ravarelli
Studio scienze politiche a Milano ma vengo da Ancona. Mi piace scrivere e bere tisane, non mi piacciono le semplificazioni e i pregiudizi. Ascolto tutti i pareri ma poi faccio di testa mia.

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