Del: 23 Aprile 2021 Di: Andrea Marcianò Commenti: 1
Aspettando gli Oscar 2021, i migliori film in gara

Domenica 25 aprile avverrà la consueta cerimonia di consegna dei premi Oscar, slittata di due mesi rispetto al solito a causa della pandemia di Covid-19. Tra i film candidati appaiono come sempre i film più in voga dello scorso anno, insieme ad altri invece inaspettati: se non stupisce, infatti, la grande presenza di lungometraggi prodotti dalle piattaforme streaming, al contrario, è interessante notare alcune pellicole rimaste più inascoltate, ma che invece meritano un occhio di riguardo. Tra loro il fantastico successo Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, e l’opera terza della regista e sceneggiatrice Chloé Zhao, Nomadland, già Leone D’oro a Venezia e qui una delle favorite. La specialità degli Oscar è sempre quella di riuscire a risaltare anche pellicole di calibro minore, che sorprendono per la loro tecnica, messa in scena e originalità rara. Ecco di seguito alcuni di questi film.

Sound of Metal

Riz Ahmed in una scena di Sound of Metal

Film completamente ignorato ai Golden Globes 2021, ma riscattato dall’Academy degli Oscar che lo candida in ben sei categorie. Diretto dallo sceneggiatore (e ora regista) Darius Marder, e distribuito da Amazon Studios su Prime Video, vede le vicende di un bravissimo Riz Ahmed (Rogue One: A Star Wars story, Venom) nei panni del batterista heavy-metal Ruben. La storia è di per sé semplice e forse a tratti anche banale; il protagonista, dopo esser divenuto sordo, si è trovato di fronte ad un bivio: accettare la propria malattia, o pagare una costosissima operazione per recuperare parzialmente l’udito, ed è questo che rende nel complesso la trama estremamente soggettiva, arrivando anche a coinvolgere l’etica dello spettatore. Il pezzo forte del film sta nel ricercato equilibrio tra sound design, regia, montaggio e ovviamente recitazione; la scelta morale viene introiettata dal protagonista e il racconto si struttura sulle sue scelte atte a rispondere alla nuova vita a cui è condannato.

Il comparto tecnico del film completa, dunque, un’opera altrimenti debole nel suo messaggio; il modo in cui il suono, tra cui spicca il rumorista Nicolas Becker, già conosciuto per Gravity e Arrival, lavora con la ripresa di Marder permette un’immersione totale nel mondo di Ruben, coinvolgendo lo spettatore con le scene in soggettiva, sia visive che sonore, creando così la premessa per un finale forte ed estremamente empatico.

Non si può parlare troppo del film, è un viaggio complesso e fatto di scelte, dove la fantastica interpretazione di Ahmed dona quella nota tragica che completa la pellicola. Il tutto si muove armoniosamente, prima ritmato e poi scomposto, nella forma più completa del decadimento di un’artista, costretto alla riflessione esistenziale generata dal dolore.


Il mio amico in fondo al mare (originale: My Octopus Teacher)

Craig Foster in una scena del documentario

Che gli altri docu-film ci perdonino, specialmente il promettente Collective di Alexander Nanau, ma quello che a Netflix Italia piace chiamare Il mio amico in fondo al mare, ovvero My Octopus Teacher in lingua originale, è probabilmente uno dei migliori documentari degli ultimi vent’anni. Il videomaker Craig Foster, noto per i suoi film faunistici, ci racconta la storia di un intenso legame con un esemplare di polpo che vive lungo una costiera del Sud Africa. L’incredibile e avvolgente trama del documentario ci porta all’interno di un mondo all’apparenza conosciuto ma in realtà più straordinario di quello che sembra: la vita di un polpo, degli animali che vivono intorno a lui, quelli al di sotto della catena alimentare e quelli invece al di sopra, il modo in cui si mimetizza, e soprattutto il modo con cui si approccia a Foster, sono catturati incredibilmente da una camera onnisciente, il cui scopo è solo quello di osservare il magico incastro naturale della fauna e della flora, in uno spettacolo scenico fragilissimo.

È anche per la sua incredibile raffinatezza nei dettagli, ma incredibilmente sensibile al cambiamento, che la natura diventa la protagonista indiscussa del documentario (oltre all’empatica connessione tra il videomaker e il polpo). Il risultato è un film antropogenico incredibilmente autentico nel suo genere, più reale degli stessi documentari ambientalisti scientifici a cui siamo abituati; My Octopus Teacher insegna ad ascoltare, capire, interpretare la natura dalla sua più piccola conchiglia al più grande predatore della Savana. Di conseguenza, è naturale che la riflessione cada poi sugli esseri umani, su come essi siano cambiati, e su come possono fare del meglio per tutti. La pazienza e la cura con cui Foster cerca di entrare in contatto con il polpo, ci ricorda vagamente le storie sui nostri antenati che si procacciavano il cibo in un contesto dove lui, homo sapiens, era solo un pezzo del grande puzzle. La digitalizzazione e la frenesia di oggi chiude l’Uomo nella sua torre d’avorio di supremo egocentrismo, rendendo inevitabilmente artificiale anche il suo modo di pensare e mangiare.

È proprio per questo che anche un semplice polpo può ricordarci come riappropriarsi di una coscienza ecologica in grado di farci capire cos’è il nostro pianeta Terra. Perché noi sappiamo di farne parte, ma solo una guida può farcelo comprendere a pieno.

Un altro giro (originale: Druk)

Una scena tratta da Un altro giro con Mads Mikkelsen

Dal danese Thomas Vinterberg (The Hunt), arriva una storia di pura immersione sociale nella realtà di alcuni insegnanti, i quali decidono di mettere in pratica la teoria filosofica che spiega come l’essere umano è più portato alla socialità, al lavoro e al successo personale (anche psichico), se mantiene un livello costante di tasso alcolemico nel sangue. Dalla vita professionale a quella privata, la realtà offusca la mente, l’alcol è invece capace di liberarla. Il film si rivela, guarda caso, un corale e nostalgico ricordo a quei tempi che furono, quando l’adorata età giovanile permetteva di fare e pensare l’impossibile.

Il protagonista principale Martin (Mads Mikkelsen), si lancia nell’esperimento in un momento della propria vita dove a bloccarlo era la realtà stessa che lo circondava: l’amore tossico con la moglie, il rapporto di distacco coi figli, il disinteresse e la maleducazione dei suoi giovani studenti di storia (la materia più maltrattata e ignorata). Il contesto è insomma quello della Danimarca di oggi, lo stato che fino a qualche anno fa vantava di avere il premio per essere “il paese più felice al mondo”, ma che nella realtà nasconde, alle volte, la polvere sotto il tappeto. Vinterberg non è nuovo a trattare questi temi: già ai tempi del suo grande successo internazionale, The Hunt, la realtà provinciale danese ci proietta in un mondo in cui l’alcolismo viene considerato più un fatto culturale che un problema. Un altro giro, nove anni dopo, mostra nuovamente quel mondo, dove tra i giovanissimi l’alcol è questione necessaria di aggregazione, e dove l’ansia sociale, l’isolamento e la depressione serpeggiano indisturbati nel popolo felice.

L’alcol è quindi non tanto una fuga estraniante, ma al contrario una chiave che delucida la stessa realtà (a)sociale danese, raffigurata come un luogo di estrema fragilità e nevrosi generale in cui la vita scorre lenta e inesorabile. Skål!

Wolfwalkers – Il popolo dei lupi (originale: Wolfwalkers)

Una scena tratta da Wolfwalkers con (da sinistra) Mebh doppiata nella versione italiana da Sofia
Fronzi, e Robyn doppiata da Cinzia Virale

Salvo particolari eccezioni, la categoria dedicata al miglior film d’animazione è sempre stata caratterizzata dall’egemonia della Disney e della Disney Pixar. La genialità degli autori ereditata dal vecchio Walt, l’incredibile artigianalità nella creazione delle opere e lo strapotere economico della multinazionale, hanno sempre permesso a Disney di essere cento passi avanti rispetto alle altre case d’animazione. Quest’anno non è da meno. In gara sono presenti due film della Disney favoritissimi, Onward di Dan Scanlon e Soul di Pete Docter; contro invece i cartoni animati che hanno saputo parlar meno di sé. Nonostante ciò, tra i film candidati quest’anno, Wolfwalkers, nuova fatica di Tomm Moore, con la co-regia di Ross Stewart, permetterebbe una ventata d’aria fresca nel campo dell’animazione e non solo.

Terza opera del regista irlandese, prodotto dalla Cartoon Saloon, il film è una leggenda onirica narrata magistralmente sia per via della sua tecnica, sia per via della trama in sé. Il film è il coronamento di un lungo processo creativo che vede Moore come quell’erede indiscusso di Miyazaki e della Studio Ghibli. Non è infatti un caso se Wolfwalkers concentra la sua virtuosa messa in scena sul contesto irlandese, terra bistrattata, perennemente sotto il giogo politico del vicino Regno Unito, senza nessuna chance di strappare la propria indipendenza dalle mani degli inglesi, se non culturalmente e socialmente. L’animazione classica risplende sotto una nuova luce: il comparto tecnico, infatti, mischia arte miniaturistica medievale con elementi fumettistici caricaturali, il tutto in un’ottica tipicamente espressionista dove le figure dei lupi, nemici prediletti, sono sinuose e controllate, mentre quelle degli umani, amici prediletti, sono spigolose e disorientate.

A ciò, si aggiunge il classico meccanismo del “discutere sul ieri per criticare l’oggi”. Da questo punto di vista la morale ambientalista, etica e lo sfruttamento del potere per generare scandalo e paura tra la popolazione, fa del personaggio Lord Protector una figura carismatica monumentale, incontrollabile e feroce, in una Kilkenny totalmente assuefatta, nebulizzata e sfiduciata nei confronti del prossimo.

Wolfwalkers è quindi un episodio fondamentale di quell’animazione toccante, la quale dimostra che non serve necessariamente un’immagine fotorealistica per mandare un messaggio poderoso. Tomm Moore ha sempre perso contro grandissimi film: Up, dello stesso Pete Docter, e Big Hero 6. Quest’anno è altrettanto difficile sperare in una sua vittoria, ma se da un lato la Pixar continua a sfornare film dalla stessa forma, dall’altro è la casa d’animazione di Moore che sta lasciando sempre più il segno con la sua eccentrica animazione.

Andrea Marcianò
Classe '99, nato sul Lago di Como, studente in scienze della comunicazione, amante di cinema e televisione. Mi piace osservare il mondo dall'esterno come uno spettatore.

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