Sono trascorsi alcuni giorni ormai da quella che non può che definirsi una settimana di fuoco per sei delle contee dell’Ulster, e in particolare quella di Belfast. Siamo in Irlanda del Nord, parte del Regno Unito, da non confondere con lo stato indipendente chiamato Repubblica d’Irlanda. E anche se le fiamme della protesta, portata avanti da alcune migliaia di unionisti, sembrano ora languire, non si può dire altrettanto per il malcontento e il rancore. Le ragioni, come spesso accade, sono tutte storiche.
Ma partiamo dai fatti. Tutto ha inizio a Belfast, città famosa anche per i cantieri navali da cui uscì il transatlantico RMS Titanic. Venerdì due aprile scoppiano dei tumulti nell’area centrale di Sandy Row. Gruppi di giovani lanciano molotov, ingaggiano scaramucce con la polizia, bruciando veicoli e rompendo vetrine. Le tensioni nei giorni successivi si propagano, scemando tuttavia d’intensità, a nord fino alla collinosa contea di Antrim, lambita dall’Atlantico e accarezzata dalle acque del canale del Nord.
I manifestanti sono tutti unionisti, ovvero fautori del mantenimento del legame con la Gran Bretagna nell’ambito del Regno Unito. Tradizionalmente sono unionisti in Irlanda del Nord i protestanti o i discendenti da famiglie protestanti, la cui presenza storicamente si lega alla colonizzazione britannica dell’Irlanda. A loro si contrappongono, in modo più o meno marcato, i repubblicani: individui cattolici o comunque discendenti da famiglie cattoliche, che invece si sentono irlandesi e di conseguenza desiderano un forte legame con la Repubblica d’Irlanda, se non addirittura l’annessione ad essa delle sei contee. Da sempre gli unionisti sono la maggioranza: al sorgere lella Repubblica d’Irlanda nel 1922 la parte nord è rimasta quindi nel Regno Unito. La componente repubblicana però è importante e tende a crescere: le stime la pongono oggi ben oltre il 40% della popolazione.
Se il Times e altri, come causa scatenante della protesta, rilevano il fatto che il capo della polizia Simon Byrne avrebbe permesso illegalmente a 24 indipendentisti di partecipare ai funerali di un importante esponente dell’IRA – movimento espressione dell’ala dura repubblicana – forse per capire è necessario scavare un po’ più a fondo.
Sono trascorsi 23 anni dalla firma dell’accordo detto del Venerdì Santo. Quest’ultimo pose fine, o per lo meno, placò il sanguinoso conflitto in Irlanda del Nord tra formazioni paramilitari legate ai due fronti di cui abbiamo parlato prima. Una guerra decennale che aveva visto l’intervento dell’esercito del Regno Unito, con oltre 3500 morti. Con l’accordo si stabilì anche che non ci sarebbe stato nessun confine inteso come “controllo”; si pensi al controllo doganale, quello tra le “due Irlande”. Questo nel contesto di un compromesso che faceva salva l’appartenenza dell’Irlanda del nord al Regno Unito, ma al contempo garantiva un forte legame tra essa e la Repubblica d’Irlanda.
Nessun problema, a riguardo, fino a che la Repubblica d’Irlanda e il Regno Unito hanno fatto parte entrambi dell’Unione europea.
Ma tutto è cambiato con la Brexit. Ora, tra la Repubblica d’Irlanda, rimasta nell’Ue, e il Regno Unito, uscitone, deve tornare ad esserci un sistema di controlli di confine. Ma dove porre la relativa “linea”, a fronte degli accordi del Venerdì Santo? Il tema è stato a lungo discusso durante il complicato percorso che ha portato alla Brexit. E alla fine si è deciso che i controlli riguarderanno il passaggio, anzitutto delle merci, dall’Irlanda del Nord alla Gran Bretagna, e viceversa. Al primo ministro Boris Johnson e al suo governo questa è apparsa l’unica soluzione possibile per non violare gli accordi di pace e realizzare la Brexit.
Gli unionisti però si sentono traditi, in qualche modo allontanati dal resto del Regno Unito. Il fatto che non ci sia la dogana alla frontiera tra la Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord e che essa, anzi, sia prevista invece al porto di Belfast per le merci dirette in Gran Bretagna, è per loro il pericoloso segno di un’unificazione irlandese che si starebbe avvicinando.
Il 7 aprile è stata convocata l’assemblea che riunisce i rappresentanti del Democratic Unionist Party (DUP) e quelli del cosiddetto Sinn Féin fondato nel 1905 da Arthur Griffith, esponente della linea repubblicana-irlandese. E lo scontro c’è stato, con i primi che ora temono si avvicini la riunificazione irlandese. Secondo gli accordi del Venerdì Santo, in caso di maggioranza cattolica in Irlanda del Nord, che potrebbe verificarsi entro quindici anni, l’Ulster avrà diritto a un referendum consultivo per decidere se riunirsi a Dublino.
Possono sembra questioni vecchie, anche per il riferimento a una linea di separazione religiosa. Ma le tensioni in Catalogna hanno confermato che quello delle identità nazionali non è certo un tema “vecchio”. E d’altra parte, dopo una lunga storia sostanzialmente di dominio coloniale, la divisione tra irlandesi e inglesi è forte e segnata dall’ostilità, come ha modo di osservare chiunque, ad esempio, visiti l’Irlanda e ne conosca anche solo un poco gli abitanti. Nell’Irlanda del Nord, poi, pesa una storia anche recente di convivenza difficile.