Del: 4 Aprile 2021 Di: Laura Colombi Commenti: 0
Il punto del corpo che non pensa. Intervista ai Mombao

Si dice “concerto”, ma chi ha detto che non possiamo chiamarlo creazione di comunità temporanea? Tra musica e performance, i Mombao esplorano varie dimensioni performative.

I Mombao sono un duo formato da Damon Arabsolgar (Pashmak) e Anselmo Luisi (Le Luci della Centrale Elettrica, ha collaborato con Selton, Giovanni Falzone, Virtuosi del Carso). Rispettivamente 29 e 31 anni, sparsi tra Milano, Trieste e oltre, hanno alle spalle una decennale esperienza nel mondo musicale e artistico.

Il primo EP, Emigrafe EP, esce nel 2018 e apre la strada a vari tour in Italia, in Germania, nei Balcani (Slovenia, Croazia, Serbia, Kosovo, Bosnia) e in Marocco.

Abbiamo avuto la possibilità di fare due chiacchiere con Damon per saperne di più.


Ciao Damon e benvenuto su Vulcano! Inizio con la nostra domanda di rito: come descriveresti in poche parole il vostro progetto musicale?

Il nostro è innanzitutto un progetto ibrido fra musica e performance. Parte del nostro percorso è scoprire canzoni popolari da tutto il mondo, riarrangiarle per percussioni, elettronica e voci e performarle al centro della stanza, circondati dal pubblico e coperti di argilla. Questa è la risposta di rito.

Com’è nata questa idea? Voi venite dal rock e dall’elettronica, come si sente in Emigrafe EP

Dal teatro. Collaboriamo da tanti anni con la compagnia Kokoschka Revival e ci siamo coperti di argilla per la prima volta a un laboratorio del Teatro Valdoca. Una sensazione potente.

Quando Anselmo ha proposto di mascherarsi durante i concerti, l’idea di unire i due percorsi è stata immediata. Così facendo andiamo anche a coprire la nostra individualità, mettendola un attimo da parte per provare a interpretare invece un archetipo collettivo. Il che per un verso ci permette di liberarci dalla propria persona, e lascia ad altri lo spazio di riflettersi in questo archetipo, in cui ognuno poi trova un suo significato.

Essendo cresciuti in un paese occidentale, veniamo da un sistema performativo molto specifico in cui c’è un palco e un cantante che mette molto in chiaro la sua individualità, in cui il pubblico in qualche maniera raggiunge una catarsi attraverso l’individuo. È un riflesso molto specifico di come è strutturata la nostra cultura.

E quando è arrivato il momento di svolta?

Nell’estate 2018, in tour ad Agadir, in Marocco. Al momento del soundcheck, notiamo come l’impianto sia stato montato verso di noi, anziché verso il pubblico. Per loro era strano ci fosse un palco. Poi inizia il concerto e capiamo che il pubblico non conosce gli usi a cui siamo abituati: quando battere le mani, se chiedere un bis… Per loro non è comune il nostro modo di fare musica.

Abbiamo preso maggiore consapevolezza del fatto che in musica ci sono infinite possibilità, e che come proponi la tua musica  ̶  da quale setting crei a come decidi di performare  ̶  ha delle conseguenze molto importanti. Ora sentiamo la necessità di entrare in contatto con il pubblico, di creare una comunità orizzontale, un po’ come abbiamo avuto la possibilità di toccare con mano quei giorni sull’altra sponda del Mediterraneo.

Come si collega questo discorso all’interesse per la canzone popolare?

Nella nostra ottica la canzone popolare è una melodia, un ritmo, un testo che ha passato così tanti filtri da aver perso autorialità. La nostra scommessa è che una canzone che è stata cantata da tantissime persone ed è stata sintetizzata fino a una sua radice archetipica definitiva riesca a comunicare a tutti quanti, non soltanto alle persone di quel luogo. È come se diventasse una canzone popolare dell’umanità.

Quello che stiamo cercando di fare è capire come funziona questo meccanismo e provare a scrivere di sana pianta delle canzoni popolari che potrebbero essere del passato così come del futuro, che riescano a parlare a delle zone profonde dell’uomo. Senza un contenuto specifico, anzi stando nella periferia del contenuto.

Il tutto è poi parte di un discorso più ampio legato alla trance, al tribalismo e come dicevo anche alla messa in discussione della frontalità dei concerti.

Spiegaci meglio cosa intendi con trance e tribalismo…

Al termine di uno dei nostri concerti, in Slovenia, una ragazza ci ha detto di aver sentito ballare il “punto del corpo che non pensa”. La ragazza ci ha raccontato di aver sentito il bisogno di allontanarsi dal resto del pubblico nel corso della performance, per poi ritrovarsi sola in un bosco vicino. Nel buio di quella foresta ha cominciato a girare su sé stessa vorticosamente fino a raggiungere una sensazione di profondo benessere, in cui avrebbe sentito ballare quel “punto del corpo che non pensa”.

La frase ha impressionato molto Anselmo perché è esattamente quello che cerchiamo di fare con i Mombao: capire se ci sono dei dispositivi, delle modalità per risvegliare qualcosa che è latente in noi. È come se ci fosse un’intelligenza in quel punto del corpo, però non è una cosa che puoi ricercare attivamente o per cui c’è una formula magica. È come meditare o provare a volare: per farlo, non devi desiderarlo né dipendere dalla sua riuscita, eppure trovare il modo di farlo accadere.

E ci sono delle sorprese in vista per il prossimo periodo?

Da qui a poco è prevista l’uscita di un nuovo singolo, e verso maggio uscirà un mini documentario che si intitolerà proprio Il punto del corpo che non pensa, girato quest’estate da Isacco Zanon durante il nostro tour in Slovenia.

A giugno invece saremo nella residenza Milano Mediterranea al Giambellino, dove cercheremo di prendere dei canti dal quartiere per poi riproporli al quartiere stesso, una volta passati dal filtro Mombao.

Di solito lo chiamiamo concerto, ma chi ha detto che non possiamo ribattezzarlo creazione di comunità temporanea?

Immagine di copertina: fotografia di Federica Giacomazzi.

Laura Colombi
Mi pongo domande e diffondo le mie idee attraverso la scrittura e la musica, che sono le mie passioni.

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