Chi sono i sex workers? Non si tratta “soltanto” di prostituzione, ma di molto altro. Il termine “prostituta” è ormai sconsigliato, a causa dell’accezione discriminatoria alla quale si fa riferimento nell’utilizzare la parola. Oggi preferiamo dire sex worker per definire qualcuno che presta un servizio in ambito sessuale in cambio di un pagamento, previo consenso: chi fornisce prestazioni sessuali di persona, chi lo fa attraverso una webcam, chi è attore o regista di contenuti hard. Le situazioni sono tante e varie, ma queste attività hanno in comune una definizione che parrebbe ovvia, che spesso tuttavia non lo è. Sono dei veri e propri lavori retribuiti; in quanto tali, dovrebbero fornire delle garanzie, ma a causa dello stigma verso questo mondo molte regole non sono ancora state formulate.
Lavorare nel mondo del sesso costituisce ancora motivo di vergogna ed esclusione sociale, una situazione che va avanti da moltissimo tempo. Già nel 2005 26 Paesi, durante la Conferenza Europea su sex work, diritti umani, lavoro e migrazione, avevano approvato ed elaborato il manifesto per i diritti dei sex workers. Dal testo in questione si legge che «Per proteggersi ed assicurarsi un posto nella società la maggior parte dei/delle sex workers tengono nascosto il loro coinvolgimento nel sex work»; a quanto pare non è ancora così scontato parlare a voce alta della propria occupazione. Le conseguenze di questo sono presto dette: esclusione sociale, impossibilità di accedere al sistema sanitario (come negli USA), isolamento, separazione dei figli, mancanza di sistemi di sostegno al lavoratore.
Con la circolazione del virus molte attività lavorative non sono state ritenute strettamente necessarie: tra queste anche quella dei sex workers, che non vengono mai nominati nelle categorie a rischio.
Se prima non si avevano forme di previdenza in questa categoria, oggi non si hanno nemmeno dei metodi consigliati per prevenire il contagio durante il lavoro, tranne il consiglio di restare a casa. Il dibattito è aperto, ma ci sono medici che sostengono che prendere delle precauzioni in termini di disinfettanti non sia abbastanza per ritenere questi lavoratori al sicuro, per non parlare dei concetti di social distancing che non si possono applicare.
In questo periodo il sex worker non ha smesso di esercitare: molti lavorano di nascosto, lontani dalla legalità, appunto perché non godono di alcuna forma di cassa integrazione o di reddito di sostegno. Insomma, la situazione sta peggiorando di giorno in giorno, perché i clienti sono sempre meno, a causa delle limitazioni negli spostamenti; chi vive di questo lavoro si trova in una condizione terribile. Molti hanno cercato anche di utilizzare le piattaforme online, ma non è così semplice come sembra, perché sono pochi i clienti che pagano per fruire di contenuti hard online; creare un account OnlyFans, poi, non garantisce un reddito sicuro.
Si stima che siano 400.000 i sex workers a essere stati catapultati in condizione economiche precarie a causa della pandemia di COVID-19. Molti e molte lavoravano in condizioni già rischiose e sul confine della legalità, quindi è evidente come nessuno si sia premurato di risparmiare denaro per una situazione di questo tipo. In genere vi sarebbero i redditi di sostegno, ma ancora oggi non ne esiste uno statale per la categoria dei sex workers.
Le voci si sono fatte sentire: come nei Paesi Bassi, un luogo in cui il sex work è considerato, ha i propri spazi e sembrava fosse tutelato. Tuttavia, con la situazione pandemica anche il loro lavoro si è fermato e per questo motivo il 3 marzo 2021 i sex workers sono scesi in piazza ai piedi del Parlamento de L’aia, in risposta al coprifuoco anticipato alle 21. Anche in altre città ci sono state forme di protesta, come a Rotterdam, dove i sex workers hanno manifestato insieme ai proprietari di bar e ristoranti: tutti lavori penalizzati dalle chiusure che non hanno ancora ricevuto segnali di ripresa, se non qualche giorno di lavoro a singhiozzi. Anche in Malawi ci sono state delle proteste, perché con il restringimento delle possibilità di spostamento la polizia pare aver preso di mira i sex workers. Dalle interviste fatte dal Guardian i manifestanti si vedono estremamente preoccupati, impauriti che molti di loro potranno morire di fame prima che di Covid o di HIV.
In Italia abbiamo il caso avvenuto il 18 marzo a San Berillo, un quartiere di Catania: una sex worker transessuale e molti testimoni sono stati brutalmente picchiati e percossi dalla polizia, che era nella zona per un controllo alle lavoratrici. Secondo la testimonianza dei presenti, i poliziotti avrebbero intimato di non filmare, di rimanere tutti fermi, mentre percuotevano più volte la ragazza transessuale. Il caso non è ancora chiuso e andrà in tribunale a giugno; le proteste, però, sono iniziate subito. In nessun caso lavorare in questo settore può legittimare la violenza.
Esistono però delle iniziative a sostegno dei sex workers: Vincenzo Cristiano è presidente di ALA Milano Onlus, un’associazione che ha delle unità di strada che cercano di stabilire delle relazioni di aiuto con i sex workers più esposti. Nell’intervista per Fanpage racconta di come le ragazze transgender con cui collaboravano si siano trovate improvvisamente in una situazione d’emergenza economica, quindi l’associazione ha provveduto a consegnare pacchi alimentari con generi di prima necessità ai loro domicili. Il presidente di ALA Milano Onlus sa benissimo che molti e molte hanno continuato a lavorare anche in piena pandemia, come era più che prevedibile viste le poche misure di assistenza a loro favore.
Un’altra iniziativa italiana è stata la campagna Nessuna da sola del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitue Onlus, una campagna di crowdfounding che ha raccolto 21.000 euro circa da donare a sostegno dei sex workers che non possono accedere agli ammortizzatori sociali. Si trattava di fornire pacchi alimentari, farmaci, sostegni economici, aiuti per acquistare mezzi digitali, oppure si poteva acquistare la spesa sospesa. A questa campagna hanno aderito moltissime altre associazioni, come il Collettivo transfemminista di sex workers e alleate/i Ombre Rosse, l’Atn – Associazione transessuale Napoli, l’Associazione Mimosa.
Per quanto riguarda i governi dei singoli stati, questi fanno ancora orecchie da mercante; si etichetta il sex work come prostituzione, si tende a non parlarne e a fingere che non servano delle regole.
La situazione è diversa al Parlamento Europeo; il 21 gennaio 2021 ha incluso i e le sex workers nella Risoluzione sulle strategie per la parità di genere, sottolineando come ci siano dei grossi problemi a dividere i campi del sex work, perché una questione è la tratta di esseri umani, in cui le vittime sono all’80% donne, un’altra è scegliere di lavorare in questo settore. Si è anche messo nero su bianco che non si dovrebbe essere esposti a rischi di contagio per lavoro senza protezioni, come avviene nel sex work. Questo paper rimane negli archivi e agisce da monito, ma non ha la forma di un obbligo per gli Stati, i quali però verranno monitorati fino al 2025.
Ad oggi le condizioni dei sex workers vanno peggiorando, non si vedono molte misure di assistenza se non le campagne di raccolta fondi portate avanti da associazioni che già collaboravano in questo settore. È sempre più difficile per tutti e tutte lavorare in condizioni precarie, additati perché lavoratori del sesso e senza alcuna tutela per prevenire il contagio da COVID-19. Le voci dei sex workers si stanno facendo sempre più sentire, e noi quando reagiremo?