Del: 25 Maggio 2021 Di: Carlo Codini Commenti: 0

Per la verità, non capita spesso che ci capitino sotto gli occhi notizie sull’Indonesia. Stiamo parlando di una nazione del sud-est asiatico formata da migliaia di isole vulcaniche e abitata da numerosi gruppi etnici, forse addirittura centinaia, con una gran varietà di lingue diverse, e quasi trecento milioni di abitanti. I più la conoscono però per le spiagge incontaminate, ampie, fiancheggiate da palme e con alle spalle montagne verdi, famosa come oasi di pace. Ma il progetto di Mandalika, una nuova area turistica sull’isola di Lombok appena a est di Bali, sembra svilupparsi in un clima tutt’altro che idilliaco.

Approvato nel 2018, la fine dei lavori è prevista per il 30 settembre 2024. È uno dei progetti più ambiziosi, se non il più ambizioso, dell’Indonesia negli ultimi decenni, per lo meno in campo turistico, con un investimento complessivo previsto di tre miliardi di dollari e finanziamenti di rilievo come quello della Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB). E il governo, guidato da Joko Widodo, è a caccia di potenziali acquirenti per i complessi e le infrastrutture in costruzione. Si parla dell’interessamento di giganti del turismo mondale come la Paramount e Club Med che starebbero già intavolando trattative.

Alberghi, piscine, un ospedale e addirittura un grande autodromo pensato per gare motociclistiche. Così, un’isola grande la metà della Corsica ma con più di tre milioni di abitanti, famosa per le barriere coralline, si è ritrovata sotto i riflettori. Ma il progetto non ha solo sostenitori. Anzi, alla fine di marzo sono state addirittura le Nazioni Unite a muoversi, denunciando vessazioni e intimidazioni nei confronti della popolazione residente nel tratto della costa sud di Lombok interessato dall’intervento. Perché tutti gli abitanti che pur vivendo lì da generazioni non possono esibire un certificato di proprietà, come succede spesso in Indonesia, sono stati allontanati dalle loro terre e confinati nel villaggio di Kuta, e sembra che anche su chi invece ha il certificato sia molto, troppo forte la pressione delle autorità per cedere tutto e andarsene.

Le denunce non riguardano peraltro solo le vere e proprie vessazioni cui sarebbero soggetti i proprietari.

Come ricordano molte testate internazionali, non c’è stato nessun confronto tra le diverse centinaia di famiglie di pescatori e contadini convolte e il governo, non solo in fase di definizione dei progetti ma anche nel percorso di realizzazione degli stessi. A partire dal 2019 sono arrivati dei tecnici che, dopo una sommaria valutazione dei vari terreni e abitazioni, hanno stimato gli indennizzi per chi è stato riconosciuto come proprietario e disposto l’allontanamento, in qualche caso forzato.  C’è chi resiste, ma viene sostanzialmente circondato dalle gru e dal cemento fino alla resa. Un caso che ricorda il famoso modus operandi nella questione case chiodo che si pone particolarmente in Asia in questi tempi di sviluppo edilizio accelerato.

La polizia indonesiana nega che vi siano stati abusi e il governo e gli investitori sostengono che il progetto rispetta corrette linee guida in materia ambientale e sociale.

Ma l’intervento Onu, oltre alle accuse di cui si è detto propone più in generale un grande tema: quello dell’utilità dell’intero complesso in chiave di un modello di sviluppo che aiuti la popolazione. 

L’epidemia di Coronavirus ha portato 1,63 milioni di indonesiani in povertà con una crescita del tasso dal 9,2% al 9,8%. E questi sono solo i dati a luglio dell’anno scorso. Ed è vero, la realizzazione del complesso di Mandalika dovrebbe dare lavoro a migliaia di persone, prima nella costruzione e poi della gestione di un sistema di accoglienza e intrattenimento tale da attirare molti turisti e probabilmente anche numerosi super ricchi. Ma a che prezzo? Se anche sono state prese cautele, un intervento così su larga scala non può non avere un impatto stravolgente su molti equilibri. L’ecosistema dell’intera area, se non dell’intera isola ne risentirebbe enormemente con una prevedibile crescita esponenziale, tra l’altro, di rifiuti e di altre forme di inquinamento. Il rischio, come paventano molti, potrebbe essere quello di dire addio per sempre all’area tropicale e incontaminata di una fetta importante dell’isola.

Insomma, anche senza considerare, ma è doveroso invece farlo, la questione dei diritti umani in senso stretto, è oggettivo che se il progetto andrà avanti dopo che l’ultimo abitante lascerà la zona arriveranno sì ingenti quantità di denaro ma i cambiamenti saranno drammatici. Ci saranno anche grandi profitti, come segnala del resto la dimensione dell’investimento privato, ma per lo più finiranno nelle mani di pochi. Una considerazione questa dal sapore forse banale ma che è quanto mai attuale e umana. 

È vero, quei contadini e pescatori ai quali si dice di andarsene possono apparire una goccia nell’oceano della produzione e del guadagno, un “costo” che può sembrare piccolo in nome del progresso globale. Ma forse, come auspica anche l’Onu, la pandemia dovrebbe far riflettere i governi di tutto il mondo sulla fragilità delle popolazioni e l’esigenza di ripartire proprio dalla condivisione dei progetti, da una loro commisurazione al contesto ambientale e umano nel quale vanno a collocarsi. Gli investimenti maggiori sono spesso collegati a beni e infrastrutture di lusso in un settore come quello turistico molto redditizio in Indonesia. Ma resta la denuncia degli “sfrattati” che lamentano l’inadeguatezza delle nuove abitazioni, lo scarso interessamento del governo e l’irrimediabile perdita di un territorio che è poi in fondo un pezzo incancellabile della loro storia e della loro vita.

Carlo Codini
Nato nel 2000, sono uno studente di lettere. Appassionato anche di storia e filosofia, non mi nego mai letture e approfondimenti in tali ambiti, convinto che la varietà sia ricchezza, sempre.

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