
Chernobyl, anno zero. Dalle ore 01:23:40, ora di Mosca, del 26 aprile 1986, la nottata non è più delle migliori: la centrale nucleare Vladimir Lenin è in fiamme per l’esplosione di uno dei quattro reattori, che ha appena spazzato via le oltre 1.000 tonnellate di copertura e rilasciato nell’ambiente di tonnellate di materiale radioattivo, tra cui la totalità dei gas nobili, il 20-40% del Cesio-137 (con un’emivita di 30 anni) presente nel nucleo del reattore e le oltre 190 tonnellate di diossido di Uranio. Il fallout coinvolse un’area di 100.000 chilometri quadrati soprattutto tra RSS Ucraina e RSS Bielorussa, con esposizione nell’immediato a livelli di radioattività pari a 200.000 roentgen/ora presso la centrale, con una dose di letalità per l’essere umano fissata a 500 in 5 ore. Il 27 aprile venne dato l’ordine di evacuare i circa 50.000 abitanti di Pripyat, la cittadina a ridosso della centrale, teoricamente per soli tre giorni.
Ancora oggi, nessuno degli evacuati può tornare alle proprie case, e il numero delle persone costrette a lasciare permanentemente le proprie abitazioni nelle aree contaminate è salito a 350.000 dal 1986 al 2000.
Questo immane disastro, causato dalla imperizia degli operatori e da evidenti lacune tecniche dell’impianto, all’inizio presentò un conto di vittime contenuto: 31 morti immediati, alzato a 50 dall’ONU nelle stime del 2006. Ma fu nei pompieri mandati (quasi allo sbaraglio) a sedare l’incendio, nelle migliaia di “liquidatori” coinvolti nel contenere la contaminazione e nella popolazione delle aree più colpite che il fuoco di Chernobyl bruciò con più forza. Difficile stimare quanti siano morti a causa dei tumori sviluppati per l’alta dose di radiazioni cui furono esposti: nel 2006, l’Agenzia Atomica Internazionale dell’ONU affermava come il numero totale di morti attribuibili al disastro non dovrebbe superare le 4.000 unità. Tuttavia, Greenpeace e una serie di enti medici europei hanno contestato queste cifre, alzando la stima a ben 500.000 morti, in cui rientrano oltre 34.000 “liquidatori”.
Nikolai Omelyanets, nel 2006 a capo della Commissione Nazionale Ucraina per la Protezione da Radioattività, afferma infatti come il tasso di mortalità nelle zone irradiate sia aumentato del 20-30%, mentre per Evgenia Stepanova del Centro Scientifico Radiologico ucraino i casi leucemie, tumori alla tiroide e mutazioni genetiche stanno sommergendo gli ospedali locali: nella regione di Rivne, il 30% dei pazienti ospedalizzati provenienti da aree contaminate ha problemi fisici gravi, tra cui malformazioni cardiocircolatorie e tumori maligni. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, invece, nel rapporto del 2006 affermava: “non si riscontrano aumenti nel tasso di mortalità e di incidenza generale dei tumori” (a parte un aumento del tumore alla tiroide nei bambini) nelle regioni del disastro.
Ora, a 35 anni da quella terribile notte, uno studio, reso possibile dalle tecniche ormai avanzate di sequenziamento genomico, ha provato ad analizzare se le radiazioni abbiano causato un aumento importante di mutazioni genetiche nelle cellule germinali di quanti furono esposti, creando aberrazioni ereditarie.
Condotto dal National Cancer Institute, esso ha analizzato il genotipo di 130 persone nate tra il 1987 ed il 2002 nelle aree contaminate e delle 105 coppie che le hanno generate, e tale sequenziamento genomico non ha prodotto prove a favore della tesi che l’irradiazione abbia provocato un aumento di mutazioni nei gameti. I discendenti di chi fu coinvolto nel disastro nati tra le 46 settimane e i 15 anni dopo Chernobyl non porterebbero traccia genetica delle radiazioni assorbite dai genitori. Un risultato rassicurante, secondo il direttore del NCI Stephen Chanock, soprattutto per le vittime del più recente disastro nucleare di Fukushima.
Oggi la centrale nucleare Vladimir Lenin è ancora lì, con il reattore della tragedia inglobato nel Chernobyl New Safe Confinement, la megastruttura di contenimento radioattivo in acciaio e policarbonato completata nel 2018 che ha sostituito il sarcofago di cemento eretto nel 1986 e ormai pericolante. Il totale smantellamento dell’impianto si avrà, secondo i piani dello stato ucraino, nel 2065, quando la radioattività sarà scesa a livelli accettabili. All’epoca, se lo studio condotto dal NCI si sarà dimostrato corretto, le nostre cellule avranno da molto perso memoria delle radiazioni di Chernobyl. Ma l’agonia spesso atroce che è stata inferta a chi ha dato la vita per contenere i danni come a chi, ignaro e senza responsabilità, ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato nel contesto di una tragedia tranquillamente evitabile è una ferita nella memoria umana che nessuna linea di cellule germinali potrà mai sanare.