Sono passati ventinove anni da quell’esplosione in cui persero la vita Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. I cinque servitori dello Stato erano ben consapevoli del rischio che correvano quotidianamente, ma lo correvano perché non si rassegnavano all’idea che quello Stato a cui avevano giurato fedeltà continuasse a soccombere di fronte all’omertà, al clientelismo e alla violenza.
Ventinove anni dopo il loro sacrificio, fermarsi a riflettere sull’eredità – ancora attualissima – che Falcone ci ha trasmesso sembra essere il modo migliore per commemorare lui e tutte le vittime innocenti della violenza mafiosa.
Falcone fu il primo a capire che, a differenza della droga, «il denaro lascia tracce», e lo capì durante il processo Spatola, affidatogli dal futuro ideatore del pool antimafia Rocco Chinnici. Mentre istruiva il procedimento penale a carico di quel “mafioso imprenditore”[1], infatti, Falcone imparò a seguire il denaro: ispezionare i conti correnti, indagare su banche e patrimoni, seguire i flussi di denaro spingendosi oltre i confini nazionali per risalire ai traffici illeciti della famiglia Spatola-Inzerillo. Eppure, la sola frase “segui il denaro” non è sufficiente a riassumere l’intero lavoro di un magistrato che oggi ricordiamo come un eroe, ma che, quando era in vita, fu accusato di aver scelto il campo della lotta alla mafia solo per fare carriera, di aver stretto un rapporto di amicizia fin troppo intimo con il pentito Buscetta e, addirittura, di essersi organizzato un finto attentato “per farsi pubblicità”.
Il cosiddetto “metodo Falcone” prese vita a partire dal rispetto con cui il giudice trattava i suoi interlocutori durante gli interrogatori, riconoscendo in loro degli “uomini d’onore” al di là del profilo criminale. Si sviluppò poi nella battaglia portata avanti in difesa di un regime carcerario duro per i mafiosi, il famoso 41-bis, e culminò nella lotta per l’istituzione di una Superprocura antimafia (l’attuale Direzione Nazionale Antimafia), nella convinzione che solo con un coordinamento delle indagini sarebbe stato possibile fronteggiare le organizzazioni criminali ed evitare che i fascicoli si disperdessero tra le varie procure. Ciascuno di questi elementi si inseriva all’interno di una strategia a lungo termine che Falcone elaborò perché era convinto che la “logica dell’emergenza”[2] fino a quel momento adottata fosse del tutto inadeguata a contrastare un fenomeno le cui radici erano e sono più profonde di quanto non lo sia la cultura della lotta alla mafia.
La speranza di Falcone, dunque, era che i suoi successori si servissero degli strumenti da lui messi a punto per realizzare quello scenario che lui stesso immaginava, in una frase spesso snaturata e decontestualizzata: «la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine»[3]. La domanda provocatoria che Falcone si e ci fa subito dopo aver espresso questa convinzione («ma con quali strumenti affrontiamo oggi la mafia?»), insieme alla sua intera vita, ci dimostra che tale affermazione non è stata di certo pronunciata per alimentare gli atteggiamenti fatalisti e arrendevoli di chi oggi la ripete, a volte con ignoranza, a volte con ipocrisia.
Il 23 maggio 2021, pensando a Falcone e agli strumenti che oggi ci permettono di continuare a combattere la nostra guerra contro la criminalità organizzata, non si può evitare di riflettere anche sul recente pronunciamento della Corte Costituzionale, che lo scorso 15 aprile ha dichiarato l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con gli articoli 3 e 27 della Costituzione.
L’ergastolo ostativo – fortemente voluto da Falcone e introdotto dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio – è un trattamento penitenziario che consente al giudice di condannare coloro che commettono reati particolarmente gravi al carcere a vita, precludendo al colpevole la possibilità di ottenere benefici penitenziari o di accedere a misure alternative alla detenzione, a meno che egli non decida di collaborare con la giustizia.
La sentenza della Corte Costituzionale arriva circa un anno e mezzo dopo quella della Corte europea per i diritti dell’uomo, secondo cui l’ergastolo ostativo sarebbe incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo («nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»). Aggiungendo la violazione degli articoli 3 e 27 della nostra Costituzione, la Consulta ha stabilito che l’ergastolo ostativo viola anche due fondamentali principi: quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e quello della finalità rieducativa della pena.
Occorre, pertanto, «rinviare la trattazione delle questioni a maggio 2022, per consentire al legislatore gli interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso […], sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. In breve, l’eliminazione tout court del fine pena mai «rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata», dunque il Parlamento ha un anno di tempo per risolvere la questione.
Il Movimento 5 Stelle non ha perso tempo, e il 18 maggio ha presentato una proposta di legge in cui si prevede che sia il detenuto condannato all’ergastolo ostativo a dover «dimostrare di aver tagliato i collegamenti con le organizzazioni criminali», e che in futuro «non ci sarà pericolo di un ricollegamento con le stesse». Spetterà poi al Tribunale di sorveglianza di Roma, tramite una decisione collegiale dei giudici, il compito di stabilire, caso per caso, se il detenuto meriti la concessione di benefici penitenziari.
«Poco alla volta, nel silenzio generale, si stanno realizzando alcuni degli obiettivi principali della campagna stragista del 1992-1994 con lo smantellamento del sistema complessivo di contrasto alle organizzazioni mafiose ideato e voluto da Giovanni Falcone».
È questo il commento lapidario pronunciato dal dottor Nino di Matteo, ex pm del processo sulla trattativa Stato-Mafia e oggi consigliere togato del Csm. La posta in gioco, questo è chiaro, è molto alta, perché il rischio è che boss del calibro di Giuseppe e Filippo Graviano, che ancora custodiscono gelosamente i segreti delle stragi, tornino in libertà senza aver dato alcun segno tangibile di pentimento. E se è vero, come disse Buscetta, che «da Cosa Nostra non si esce, se non morti ammazzati», allora è altrettanto vero che quel segno tangibile è più che necessario. A questo punto, l’unica speranza è che la soluzione proposta dal Movimento 5 Stelle sia in grado di rendere un po’ meno amara questa sentenza, che di certo non sarebbe stata ben accolta dall’uomo di cui oggi ricordiamo l’anniversario della morte.
[1] Una strage semplice, Nando dalla Chiesa.
[2] Cose di Cosa Nostra, Giovanni Falcone in collaborazione con Marcelle Padovani.
[3] Ibidem.